Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una trasformazione dell’utilizzo di internet caratterizzata da un esponenziale incremento dell’interazione tra sito e utente: maggiore coinvolgimento dei fruitori (blog, chat, forum, acquisti online), affermazione di social network (facebook, twitter, instagram, you tube, ecc.) e più efficiente condivisione delle informazioni. Per rappresentare questa seconda fase di sviluppo e diffusione della rete, caratterizzata da un maggior coinvolgimento da parte dei fruitori, è stata coniata l’espressione ‹‹web 2.0››1 apparsa nel 2005 ed usata per sottolineare l’affermazione di una seconda età del web. Contestualmente, negli ultimi anni abbiamo assistito ad un uso pervasivo dell’espressione sharing economy: tale ascesa è stata cristallizzata nel 2015 dal prestigioso Oxford Dictionary, il quale ha recepito il termine in esame tra i neologismi, definendolo come ‹‹un sistema economico nel quale beni o servizi sono condivisi tra privati, gratuitamente o in cambio di una somma di denaro, tipicamente attraverso internet›› Dunque, il prestigioso Oxford Dictionary, nell’accogliere l’espressione sharing economy tra i neologismi, ha perseguito l’intento di disegnare i confini e mettere ordine tra una moltitudine di espressioni usate nel discorso corrente come sinonimi o con piccoli spostamenti di significato: sharing, ma anche collaborative, peer-to-peer, on-demand o gig economy, collaborative consumption, ai quali si aggiungono gli equivalenti italiani (economia della condivisione, economia collaborativa, consumo collaborativo, ecc). Richiamando la definizione elaborata da una recente dottrina3 , con l’espressione ‹‹economia della condivisione›› o ‹‹economia collaborativa4 ›› (‹‹sharing economy›› o ‹‹collaborative economy››) vengono designati quei modelli di organizzazione economica che impiegano le tecnologie digitali per consentire lo scambio di merci e la fornitura di servizi grazie all’intermediazione di una piattaforma per il coordinamento di domanda e offerta5 . È opportuno evidenziare che nell’uso comune prevale l’espressione inglese sharing economy6 anziché l’equivalente italiano ‹‹economia della condivisione››. L’espressione ‹‹economia della condivisione›› o sharing economy è impiegata per designare pratiche economiche molto diverse tra loro per caratteristiche, valore economico e orientamento al mercato7 . Alcune ‹‹pratiche›› di sharing economy sono orientate al profitto rispondendo a logiche di scambio di mercato, altre invece si inscrivono nella logica della condivisione ove la remunerazione è assente o solo eventuale. È stato osservato che «poliedricità ed eterogeneità caratterizzano i profili di incidenza di un fenomeno economico» che trascende il mercato, per coinvolgere questioni afferenti a molteplici ambiti del diritto. Da tale modello economico, fondato sulla condivisione di beni e servizi fra pari utenti della rete, «discende un complesso quadro economico-sociale, intriso di quesiti e latenti lacune regolamentari che prospettano incognite di tutela dei diritti, sia in una visione attuale, che in un’ottica de iure condendo» 8 . In base ad una ‹‹prima accezione››, con l’espressione sharing economy viene individuato un ampio spettro di pratiche che impiegano la capacità a riposo (c.d. idling capacity) di beni - auto, bici, scooter, attrezzi da lavoro, abbigliamento, giocattoli e molti altri - che nell’economia ‹‹tradizionale›› sono acquistati e non utilizzati appieno9 . Quindi, in alternativa all’acquisto e al ‹‹consumo proprietario››, si afferma un modello di consumo basato sull’‹‹accesso temporaneo›› (c.d. access-based consumption) e su pratiche di condivisione che rendono lo sfruttamento delle risorse più efficiente, dal carsharing per l’auto alle tool o toy library per attrezzi da lavoro e giocattoli10 . Di poi, in base ad una ‹‹seconda accezione››, sharing economy designa l’erogazione ‹‹diretta›› di servizi da parte di privati (peer-to- peer). È stato evidenziato che la ‹‹peculiarità›› dell’economia della condivisione è costituita dalla nuova possibilità per soggetti non professionisti di agire sul mercato come attori economici; infatti, come si analizzerà meglio più avanti, è la condivisione di risorse tra pari che mostra i limiti delle regole vigenti - concepite per disciplinare rapporti fra il professionista e il consumatore o fra professionisti – e presenta una sfida nuova e complessa per il legislatore. La nascita delle ‹‹piattaforme online›› che – grazie a tecnologie digitali, big data e intelligenza artificiale – abilitano l’accesso condiviso alle risorse, coordinando la domanda e l’offerta di servizi, ha permesso di eliminare molti passaggi delle filiere dell’economia consentendo l’incontro diretto dei privati in molti settori controllati fino a poco tempo fa esclusivamente da professionisti; dunque, si è assistito ad una trasformazione dell’organizzazione produttiva dell’offerta di servizi per effetto della nascita delle piattaforme online, le quali hanno decretato la riduzione degli intermediari tradizionali (c.d. disintermediazione). Invece, quando è l’impresa a garantire l’accesso a beni di cui mantiene la proprietà, noleggiandoli a fronte del pagamento di un corrispettivo in denaro, si verifica un fenomeno già noto da decenni anche se oggi accelerato dall’innovazione tecnologica: il passaggio dalla produzione di beni alla somministrazione di servizi (ad esempio, nelle forme di carsharing gestite da soggetti imprenditoriali o pubblici). Pertanto, una parte della dottrina12 non ricomprende nella definizione di sharing economy quei modelli produttivi basati sull’erogazione professionale dei servizi nei quali l’impresa, anziché vendere il prodotto, lo concede in uso al consumatore, come ad esempio nelle forme di carsharing gestiti da imprese (Car2go, Enjoy). A prima vista potrebbe apparire corretto discorrere di sharing economy anche in questi casi, in considerazione del fatto che anche questi modelli organizzativi si caratterizzano per un consumo fondato sull’accesso temporaneo dei beni anziché sul consumo proprietario. Tuttavia, è bene distinguere i due fenomeni perché molto distanti sul piano economico, ma soprattutto in ragione delle diverse ricadute sul piano giuridico13 . Infatti, non è un caso che le tante polemiche che hanno accompagnato la diffusione delle pratiche di sharing economy non hanno riguardato, se non in misura marginale, anche le forme di erogazione professionale del servizio. Invece, altra parte della dottrina14 ricomprende nella definizione di sharing economy anche quei modelli produttivi basati sull’erogazione professionale del servizio, sulla scorta delle innegabili comunanze: il consumo fondato sull’accesso temporaneo e la presenza della piattaforma online che coordina l’incontro tra la domanda e l’offerta dei servizi da parte di agenti economici appartenenti ai diversi versanti del mercato (ad esempio, conducenti e passeggeri nel settore della mobilità).
I Contratti dell'Impresa Collaborativa: Aspetti Civilistici della Sharing Economy
IANNUZZI, ANDREA
2021-12-20
Abstract
Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una trasformazione dell’utilizzo di internet caratterizzata da un esponenziale incremento dell’interazione tra sito e utente: maggiore coinvolgimento dei fruitori (blog, chat, forum, acquisti online), affermazione di social network (facebook, twitter, instagram, you tube, ecc.) e più efficiente condivisione delle informazioni. Per rappresentare questa seconda fase di sviluppo e diffusione della rete, caratterizzata da un maggior coinvolgimento da parte dei fruitori, è stata coniata l’espressione ‹‹web 2.0››1 apparsa nel 2005 ed usata per sottolineare l’affermazione di una seconda età del web. Contestualmente, negli ultimi anni abbiamo assistito ad un uso pervasivo dell’espressione sharing economy: tale ascesa è stata cristallizzata nel 2015 dal prestigioso Oxford Dictionary, il quale ha recepito il termine in esame tra i neologismi, definendolo come ‹‹un sistema economico nel quale beni o servizi sono condivisi tra privati, gratuitamente o in cambio di una somma di denaro, tipicamente attraverso internet›› Dunque, il prestigioso Oxford Dictionary, nell’accogliere l’espressione sharing economy tra i neologismi, ha perseguito l’intento di disegnare i confini e mettere ordine tra una moltitudine di espressioni usate nel discorso corrente come sinonimi o con piccoli spostamenti di significato: sharing, ma anche collaborative, peer-to-peer, on-demand o gig economy, collaborative consumption, ai quali si aggiungono gli equivalenti italiani (economia della condivisione, economia collaborativa, consumo collaborativo, ecc). Richiamando la definizione elaborata da una recente dottrina3 , con l’espressione ‹‹economia della condivisione›› o ‹‹economia collaborativa4 ›› (‹‹sharing economy›› o ‹‹collaborative economy››) vengono designati quei modelli di organizzazione economica che impiegano le tecnologie digitali per consentire lo scambio di merci e la fornitura di servizi grazie all’intermediazione di una piattaforma per il coordinamento di domanda e offerta5 . È opportuno evidenziare che nell’uso comune prevale l’espressione inglese sharing economy6 anziché l’equivalente italiano ‹‹economia della condivisione››. L’espressione ‹‹economia della condivisione›› o sharing economy è impiegata per designare pratiche economiche molto diverse tra loro per caratteristiche, valore economico e orientamento al mercato7 . Alcune ‹‹pratiche›› di sharing economy sono orientate al profitto rispondendo a logiche di scambio di mercato, altre invece si inscrivono nella logica della condivisione ove la remunerazione è assente o solo eventuale. È stato osservato che «poliedricità ed eterogeneità caratterizzano i profili di incidenza di un fenomeno economico» che trascende il mercato, per coinvolgere questioni afferenti a molteplici ambiti del diritto. Da tale modello economico, fondato sulla condivisione di beni e servizi fra pari utenti della rete, «discende un complesso quadro economico-sociale, intriso di quesiti e latenti lacune regolamentari che prospettano incognite di tutela dei diritti, sia in una visione attuale, che in un’ottica de iure condendo» 8 . In base ad una ‹‹prima accezione››, con l’espressione sharing economy viene individuato un ampio spettro di pratiche che impiegano la capacità a riposo (c.d. idling capacity) di beni - auto, bici, scooter, attrezzi da lavoro, abbigliamento, giocattoli e molti altri - che nell’economia ‹‹tradizionale›› sono acquistati e non utilizzati appieno9 . Quindi, in alternativa all’acquisto e al ‹‹consumo proprietario››, si afferma un modello di consumo basato sull’‹‹accesso temporaneo›› (c.d. access-based consumption) e su pratiche di condivisione che rendono lo sfruttamento delle risorse più efficiente, dal carsharing per l’auto alle tool o toy library per attrezzi da lavoro e giocattoli10 . Di poi, in base ad una ‹‹seconda accezione››, sharing economy designa l’erogazione ‹‹diretta›› di servizi da parte di privati (peer-to- peer). È stato evidenziato che la ‹‹peculiarità›› dell’economia della condivisione è costituita dalla nuova possibilità per soggetti non professionisti di agire sul mercato come attori economici; infatti, come si analizzerà meglio più avanti, è la condivisione di risorse tra pari che mostra i limiti delle regole vigenti - concepite per disciplinare rapporti fra il professionista e il consumatore o fra professionisti – e presenta una sfida nuova e complessa per il legislatore. La nascita delle ‹‹piattaforme online›› che – grazie a tecnologie digitali, big data e intelligenza artificiale – abilitano l’accesso condiviso alle risorse, coordinando la domanda e l’offerta di servizi, ha permesso di eliminare molti passaggi delle filiere dell’economia consentendo l’incontro diretto dei privati in molti settori controllati fino a poco tempo fa esclusivamente da professionisti; dunque, si è assistito ad una trasformazione dell’organizzazione produttiva dell’offerta di servizi per effetto della nascita delle piattaforme online, le quali hanno decretato la riduzione degli intermediari tradizionali (c.d. disintermediazione). Invece, quando è l’impresa a garantire l’accesso a beni di cui mantiene la proprietà, noleggiandoli a fronte del pagamento di un corrispettivo in denaro, si verifica un fenomeno già noto da decenni anche se oggi accelerato dall’innovazione tecnologica: il passaggio dalla produzione di beni alla somministrazione di servizi (ad esempio, nelle forme di carsharing gestite da soggetti imprenditoriali o pubblici). Pertanto, una parte della dottrina12 non ricomprende nella definizione di sharing economy quei modelli produttivi basati sull’erogazione professionale dei servizi nei quali l’impresa, anziché vendere il prodotto, lo concede in uso al consumatore, come ad esempio nelle forme di carsharing gestiti da imprese (Car2go, Enjoy). A prima vista potrebbe apparire corretto discorrere di sharing economy anche in questi casi, in considerazione del fatto che anche questi modelli organizzativi si caratterizzano per un consumo fondato sull’accesso temporaneo dei beni anziché sul consumo proprietario. Tuttavia, è bene distinguere i due fenomeni perché molto distanti sul piano economico, ma soprattutto in ragione delle diverse ricadute sul piano giuridico13 . Infatti, non è un caso che le tante polemiche che hanno accompagnato la diffusione delle pratiche di sharing economy non hanno riguardato, se non in misura marginale, anche le forme di erogazione professionale del servizio. Invece, altra parte della dottrina14 ricomprende nella definizione di sharing economy anche quei modelli produttivi basati sull’erogazione professionale del servizio, sulla scorta delle innegabili comunanze: il consumo fondato sull’accesso temporaneo e la presenza della piattaforma online che coordina l’incontro tra la domanda e l’offerta dei servizi da parte di agenti economici appartenenti ai diversi versanti del mercato (ad esempio, conducenti e passeggeri nel settore della mobilità).File | Dimensione | Formato | |
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