Il tema dell'abitare nelle città contemporanee si coniuga molto spesso con quello della rigenerazione dei quartieri di edilizia residenziale pubblica, realizzati prima in Europa e successivamente in Italia a partire dal secondo dopoguerra (Aymonino, 1975). Queste “parti di città” formalmente compiute (Bello, 2017) e concepite come diretta eredità del Movimento Moderno, rappresentano uno straordinario campo di indagine ed osservazione per analizzare le trasformazioni urbane in atto. In termini dimensionali l’occupazione di suolo degli interventi di edilizia economica e popolare è particolarmente significativa, soprattutto in centri urbani minori divenuti, spesso forzatamente, zone industriali con la conseguenza di doversi attrezzare rapidamente a ricevere un numero cospicuo di famiglie per poter far fronte alla domanda di lavoro. Uno di questi casi, il quartiere Monticelli di Ascoli Piceno, progettato da Leonardo Benevolo tra il 1963 e il 1968, è nato con l’intenzione evidente di “raddoppiare” il centro storico sia in termini di occupazione di suolo, che di numero di abitanti. In prossimità della città storica, densa e “monomaterica”, si sviluppa lungo il medesimo asse da ovest verso est una parte di Ascoli completamente nuova e caratterizzata da un rapporto tra suolo edificato e spazi aperti ribaltato a vantaggio dei secondi. Come è stato più volte segnalato (Secchi, 1994) il piano riprende tutti i caratteri principali della città razionalista di impronta lecorbuseriana, come le visuali prospettiche, la separazione netta tra traffico veloce e percorsi pedonali, l’estensione in altezza dell’edificato per consentire una maggiore occupazione del verde nelle superfici orizzontali del piano di campagna. Tutto questo in una versione “all’italiana”, qui finalmente libera dalle suggestioni vernacolari dei quartieri INA casa, ma ancora impacciata nel tradurre questa nuova impostazione “europea” in innovazione delle pratiche edilizie, come invece è avvenuto nei quartieri delle grandi città in Europa e, in alcuni casi noti, nelle grandi città italiane come Roma, Milano, Napoli, etc. Solo gli edifici alti, che puntualizzano l’asse stradale principale che attraversa il quartiere, offrono ingannevolmente un'immagine di modernità, che viene smentita all’occhio attento dell’osservatore che non si ferma solo alla prima occhiata. In questo quadro, che vede un caso studio caratterizzato da una impostazione urbana semplice e gerarchica, con un edificato tutto sommato tradizionale organizzato all’interno di uno spazio dilatato e “contemporaneo”, si intravedono nuove opportunità già delineate in studi e progetti, sia in Europa che in Italia (Arbizzani et al., 2020). La maggior parte di questi hanno offerto ipotesi di rigenerazione che sfruttano i vuoti tra le maglie dell’edificato secondo diversi approcci, ma con una impronta che vede nella multidisciplinarietà e nell’organizzazione sistemica delle azioni l’unica possibilità di individuare risposte condivise. L’impostazione data alla ricerca vuole invertire la generale tendenza alla densificazione concepita esclusivamente in chiave edilizia, per esaltare il ruolo dello spazio aperto come risorsa indiscutibile in grado di offrire un contributo significativo al problema del riscaldamento globale e dell’isola di calore urbana. La densificazione attraverso la “forestazione urbana”, diventato centrale nelle politiche urbane di stati, regioni e comuni, tanto da entrare nei programmi di governo in tutto il mondo, sembra essere una di queste risposte; ma ancora una volta si tratta di una semplificazione, con l’idea di rispondere ad un problema attraverso una soluzione “monodirezionata”. Gli slogan spesso hanno potere di fascinazione ma non mettono in evidenza le difficoltà che derivano dalle complessità dei processi da attivare e nei quali compaiono (quando va bene) solo le esigenze degli umani, considerati i veri garanti del successo di un’azione progettuale. Secondo Stefano Mancuso (Mancuso, 2020), “non si può comprendere il funzionamento di un ambiente complesso come la città guardando solo alle necessità umane”, ma allargando l’orizzonte alle necessità dell’intero ecosistema, di cui le persone e la stessa consistenza edilizia urbana fanno parte. Dunque, lo stesso concetto di densificazione va visto in un’ottica che comprenda diverse e specifiche opzioni dedicate certamente a migliorare la qualità della vita e la salute degli abitanti, ma che sono interconnesse inevitabilmente con la qualità e tipologia di tutte le componenti che caratterizzano l’intero ambiente costruito; il passaggio che si vuole attuare è appunto di non separare più l’artificiale dal naturale, ma di comprendere il primo come parte essenziale del secondo. La ricerca di soluzioni “nature based”, specifiche e centrate sull’obiettivo di offrire il soddisfacimento dei bisogni ambientali nel suo complesso, può essere la costruzione di una metodologia puntuale per offrire un contributo “di sistema”, secondo il principio di “co-evoluzione in cui uomini, ambiente, edifici, reti, piante e animali si trasformano” basando la progettazione su “piccoli aggiustamenti fra i luoghi e gli abitanti, non solo umani, della città.” (Canuto da Silva and do Eirado Amorim, 2010)

La sfida delle periferie: i quartieri ERP come opportunità di risposta all’emergenza climatica e sanitaria

Roberta Cocci Grifoni;Maria Federica Ottone;Graziano enzo Marchesani
2020-01-01

Abstract

Il tema dell'abitare nelle città contemporanee si coniuga molto spesso con quello della rigenerazione dei quartieri di edilizia residenziale pubblica, realizzati prima in Europa e successivamente in Italia a partire dal secondo dopoguerra (Aymonino, 1975). Queste “parti di città” formalmente compiute (Bello, 2017) e concepite come diretta eredità del Movimento Moderno, rappresentano uno straordinario campo di indagine ed osservazione per analizzare le trasformazioni urbane in atto. In termini dimensionali l’occupazione di suolo degli interventi di edilizia economica e popolare è particolarmente significativa, soprattutto in centri urbani minori divenuti, spesso forzatamente, zone industriali con la conseguenza di doversi attrezzare rapidamente a ricevere un numero cospicuo di famiglie per poter far fronte alla domanda di lavoro. Uno di questi casi, il quartiere Monticelli di Ascoli Piceno, progettato da Leonardo Benevolo tra il 1963 e il 1968, è nato con l’intenzione evidente di “raddoppiare” il centro storico sia in termini di occupazione di suolo, che di numero di abitanti. In prossimità della città storica, densa e “monomaterica”, si sviluppa lungo il medesimo asse da ovest verso est una parte di Ascoli completamente nuova e caratterizzata da un rapporto tra suolo edificato e spazi aperti ribaltato a vantaggio dei secondi. Come è stato più volte segnalato (Secchi, 1994) il piano riprende tutti i caratteri principali della città razionalista di impronta lecorbuseriana, come le visuali prospettiche, la separazione netta tra traffico veloce e percorsi pedonali, l’estensione in altezza dell’edificato per consentire una maggiore occupazione del verde nelle superfici orizzontali del piano di campagna. Tutto questo in una versione “all’italiana”, qui finalmente libera dalle suggestioni vernacolari dei quartieri INA casa, ma ancora impacciata nel tradurre questa nuova impostazione “europea” in innovazione delle pratiche edilizie, come invece è avvenuto nei quartieri delle grandi città in Europa e, in alcuni casi noti, nelle grandi città italiane come Roma, Milano, Napoli, etc. Solo gli edifici alti, che puntualizzano l’asse stradale principale che attraversa il quartiere, offrono ingannevolmente un'immagine di modernità, che viene smentita all’occhio attento dell’osservatore che non si ferma solo alla prima occhiata. In questo quadro, che vede un caso studio caratterizzato da una impostazione urbana semplice e gerarchica, con un edificato tutto sommato tradizionale organizzato all’interno di uno spazio dilatato e “contemporaneo”, si intravedono nuove opportunità già delineate in studi e progetti, sia in Europa che in Italia (Arbizzani et al., 2020). La maggior parte di questi hanno offerto ipotesi di rigenerazione che sfruttano i vuoti tra le maglie dell’edificato secondo diversi approcci, ma con una impronta che vede nella multidisciplinarietà e nell’organizzazione sistemica delle azioni l’unica possibilità di individuare risposte condivise. L’impostazione data alla ricerca vuole invertire la generale tendenza alla densificazione concepita esclusivamente in chiave edilizia, per esaltare il ruolo dello spazio aperto come risorsa indiscutibile in grado di offrire un contributo significativo al problema del riscaldamento globale e dell’isola di calore urbana. La densificazione attraverso la “forestazione urbana”, diventato centrale nelle politiche urbane di stati, regioni e comuni, tanto da entrare nei programmi di governo in tutto il mondo, sembra essere una di queste risposte; ma ancora una volta si tratta di una semplificazione, con l’idea di rispondere ad un problema attraverso una soluzione “monodirezionata”. Gli slogan spesso hanno potere di fascinazione ma non mettono in evidenza le difficoltà che derivano dalle complessità dei processi da attivare e nei quali compaiono (quando va bene) solo le esigenze degli umani, considerati i veri garanti del successo di un’azione progettuale. Secondo Stefano Mancuso (Mancuso, 2020), “non si può comprendere il funzionamento di un ambiente complesso come la città guardando solo alle necessità umane”, ma allargando l’orizzonte alle necessità dell’intero ecosistema, di cui le persone e la stessa consistenza edilizia urbana fanno parte. Dunque, lo stesso concetto di densificazione va visto in un’ottica che comprenda diverse e specifiche opzioni dedicate certamente a migliorare la qualità della vita e la salute degli abitanti, ma che sono interconnesse inevitabilmente con la qualità e tipologia di tutte le componenti che caratterizzano l’intero ambiente costruito; il passaggio che si vuole attuare è appunto di non separare più l’artificiale dal naturale, ma di comprendere il primo come parte essenziale del secondo. La ricerca di soluzioni “nature based”, specifiche e centrate sull’obiettivo di offrire il soddisfacimento dei bisogni ambientali nel suo complesso, può essere la costruzione di una metodologia puntuale per offrire un contributo “di sistema”, secondo il principio di “co-evoluzione in cui uomini, ambiente, edifici, reti, piante e animali si trasformano” basando la progettazione su “piccoli aggiustamenti fra i luoghi e gli abitanti, non solo umani, della città.” (Canuto da Silva and do Eirado Amorim, 2010)
2020
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