Il 40% del territorio nazionale è coperto da foreste. Questa superficie è aumentata del 19% in circa 10 anni. Se poi guardiamo gli spazi naturali più in generale (includendo pascoli d’altitudine, forre e ghiacciai) la percentuale aumenta di molto. Il rinselvatichimento è dunque un fenomeno naturale. Continuerà ad avanzare anche con grave danno per il mantenimento della biodiversità. L’abbandono di aree abitate di montagna, interne e remote, e il rotolamento delle piastre insediative e produttive verso le valli e le pianure è un trend dell’ultimo secolo e rimette in gioco il rapporto tra uomo e natura. La natura, idealizzata nella cultura classica, con dimensioni religiose nel Medioevo, è stata “umanizzata” nel Rinascimento. Dal XVI secolo è stata studiata in termini razionali con metodi scientifici (scomponendo e ricomponendo le diverse componenti). Solo nell’ultimo quarto di secolo, è prevalsa un’interpretazione olistica. La visione sistemica di questo rapporto è complessa ma irrinunciabile. L’uomo diventa parte della natura, ma è anche il suo principale agente trasformatore. Parafrasando la metafora del teatro di Eugenio Turri, l’uomo è elemento componente la scena, ma è anche colui che guarda la scena; è dunque lo sfondo e, nel contempo, è attore. Soprattutto dopo la rivoluzione industriale, quando la capacità di intervenire sulla natura e indurre trasformazioni è molto rilevante, questo rapporto va studiato attentamente e la decisione sulle azioni da mettere in atto non può essere lasciata a quella che Muratori chiamerà la “coscienza spontanea” (cioè: “si è fatto sempre così”; “i nostri nonni facevano così”). Va messa in funzione la “coscienza critica” che produce anche innovazione e cambiamento. Se c’è realmente una maggiore richiesta di natura e se c’è una tendenza a immaginare nuovi universi di senso per la montagna, già sostenuta da alcune strategie condivise a livello nazionale ed europeo (ad esempio: Ape Appennino Parco d’Europa; Strategia Nazionale Aree Interne; Next Appennino, in attuazione del Next Generation EU, …) alcune domande sono impellenti: → Abitare la montagna considerandola uno spazio “urbano”, con la stessa dotazione di servizi della città di pianura/valle, o pensare la montagna come un ambiente straordinario di vita, riservato a pochi? → Favorire l’idea della montagna come una grande riserva, o immaginarla come un grande spazio per la ricreazione dei cittadini? → Contenere e orientare l’espansione della natura nella città e nei nuclei rurali o lasciare che tutto evolva spontaneamente sino ad avere spazi wilderness che penetrano gli ambienti urbani ? → Favorire l’innovazione degli usi agroforestali dei suoli e delle produzioni o ripercorrere antiche modalità di gestione dei territori? Naturalmente sono domande senza risposte. Sono domande provocatorie, tese ad innescare un dibattito. Quel che è certo è che tra uomo e natura è in atto un rapporto ambiguo, che solo il progetto può rendere fecondo. Un ambito territoriale, qualsiasi esso sia, non è predestinato a una vocazione. Solo l’uomo può definire il suo carattere identitario e attribuirgli universi di senso.

ABITARE LA MONTAGNA (CAI, Centro Studi Sarnanesi, SAAD UNICAM, REDI Research)

Pierantoni I.
;
Sargolini M.;Stimilli F.;Porfiri S.;Polci V.;Simionato L.;Soares Cortes A.;Paolini C.
2024-01-01

Abstract

Il 40% del territorio nazionale è coperto da foreste. Questa superficie è aumentata del 19% in circa 10 anni. Se poi guardiamo gli spazi naturali più in generale (includendo pascoli d’altitudine, forre e ghiacciai) la percentuale aumenta di molto. Il rinselvatichimento è dunque un fenomeno naturale. Continuerà ad avanzare anche con grave danno per il mantenimento della biodiversità. L’abbandono di aree abitate di montagna, interne e remote, e il rotolamento delle piastre insediative e produttive verso le valli e le pianure è un trend dell’ultimo secolo e rimette in gioco il rapporto tra uomo e natura. La natura, idealizzata nella cultura classica, con dimensioni religiose nel Medioevo, è stata “umanizzata” nel Rinascimento. Dal XVI secolo è stata studiata in termini razionali con metodi scientifici (scomponendo e ricomponendo le diverse componenti). Solo nell’ultimo quarto di secolo, è prevalsa un’interpretazione olistica. La visione sistemica di questo rapporto è complessa ma irrinunciabile. L’uomo diventa parte della natura, ma è anche il suo principale agente trasformatore. Parafrasando la metafora del teatro di Eugenio Turri, l’uomo è elemento componente la scena, ma è anche colui che guarda la scena; è dunque lo sfondo e, nel contempo, è attore. Soprattutto dopo la rivoluzione industriale, quando la capacità di intervenire sulla natura e indurre trasformazioni è molto rilevante, questo rapporto va studiato attentamente e la decisione sulle azioni da mettere in atto non può essere lasciata a quella che Muratori chiamerà la “coscienza spontanea” (cioè: “si è fatto sempre così”; “i nostri nonni facevano così”). Va messa in funzione la “coscienza critica” che produce anche innovazione e cambiamento. Se c’è realmente una maggiore richiesta di natura e se c’è una tendenza a immaginare nuovi universi di senso per la montagna, già sostenuta da alcune strategie condivise a livello nazionale ed europeo (ad esempio: Ape Appennino Parco d’Europa; Strategia Nazionale Aree Interne; Next Appennino, in attuazione del Next Generation EU, …) alcune domande sono impellenti: → Abitare la montagna considerandola uno spazio “urbano”, con la stessa dotazione di servizi della città di pianura/valle, o pensare la montagna come un ambiente straordinario di vita, riservato a pochi? → Favorire l’idea della montagna come una grande riserva, o immaginarla come un grande spazio per la ricreazione dei cittadini? → Contenere e orientare l’espansione della natura nella città e nei nuclei rurali o lasciare che tutto evolva spontaneamente sino ad avere spazi wilderness che penetrano gli ambienti urbani ? → Favorire l’innovazione degli usi agroforestali dei suoli e delle produzioni o ripercorrere antiche modalità di gestione dei territori? Naturalmente sono domande senza risposte. Sono domande provocatorie, tese ad innescare un dibattito. Quel che è certo è che tra uomo e natura è in atto un rapporto ambiguo, che solo il progetto può rendere fecondo. Un ambito territoriale, qualsiasi esso sia, non è predestinato a una vocazione. Solo l’uomo può definire il suo carattere identitario e attribuirgli universi di senso.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11581/486143
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