L’arte di guardare il mondo che si trasforma Di luca galofaro Può esistere una forma d’arte senza un’artista che la produca? Questa è la domanda che Giles Clement ci pone attraverso il suo ultimo breve trattato. Ogni libro di Clément è un’esperienza unica, ogni volta che leggo qualcosa di suo, non so perchè, mi trovo inevitabilmente a pensare a John Berger e ai suoi consigli per guardare al mondo. Entrambi sembrano volerci insegnare che la realtà dipende dal nostro modo di guardarla. Scrive Berger È il vedere che determina il nostro posto all’interno del mondo che ci circonda; quel mondo può essere spiegato a parole, ma le parole non posso annullare il fatto che ne siamo circondati. Il rapporto tra ciò che vediamo e ciò che sappiamo non è mai definito una volta per tutte. Clément attraverso, scatti fotografici, parole e segni tracciati velocemente a mano, osserva il paesaggio e lo codifica apertamente dividendolo in categorie espressive. Se i Land Artist avevano cercato di spostare il proprio campo d’azione al di fuori dei luoghi tradizionali e avevano trovato nello sconfinato paesaggio americano il luogo ideale in cui re immaginare l’intervento artistico. Se il dialogo tra interno ed esterno era stato il luogo di scontro tra un arte ambientale ed un pensiero strutturato capace di creare un nuovo linguaggio. Per Gilles Clément succede quasi il contrario un tentativo di reimmaginare la trasformazione lenta e incontrollata del paesaggio attraverso ciò che accade quasi per caso, o involontariamente nello scontro tra natura e l’agire umano. Tanti di noi fotografano quotidianamente frammenti del reale perché intravedono quello che l’arte ci ha mostrato per tanto tempo, ma quasi nessuno ha avuto la consapevolezza di codificare questa lenta ed inevitabile trasformazione, che avviene di continuo ogni giorno attorno a noi. Ettore Sottsass attraverso le sue metafore e attraverso l’uso della fotografia ha tentato di tradurre tutto quello che osservava in progetto. Il suo era un atto volontario di traduzione del reale e come lui molti progettisti cercano il modo di ridefinire i canoni artistici del reale. Clément non vuole trasformare, non ha un progetto da realizzare, semplicemente scrive un trattato attraverso il quale decodificare le trasformazioni e le forme spontanee che definiscono nuovi paesaggi. Non è quindi uno scrittore, un’artista o un critico, ma un semplice osservatore. L’operazione che Clément compie è quella di restituire una forma definita al caso, di trovare un senso ai segni che si trovano intorno a noi, così come hanno fatto prima di lui gli artisti delle Avanguardie novecentesche. L’arte involontaria è il risultato di uno scontro, una collisione inconsapevole, tra naturale ed artificiale, tra scarti, azioni dell’uomo. Un’opera senza firma evidente se non l’appropriazione da parte dell’uomo di quello che in realtà è il paesaggio antropizzato. Se nel manifesto del terzo paesaggio erano gli stessi spazi naturali a resistere all’azione dell’uomo, e ad autogenerarsi secondo un evoluzione spontanea. In questo trattato sull’arte involontaria sono gli spazi aperti, le aree a margine ad assumere nuove conformazioni in relazione alle azioni indirettamente connesse a questi spazi. Clément non rinuncia alla classificazione, sia pure casuale che si articola in voli, accumuli, isole, costruzioni, erosioni, installazioni, tracce, apparizioni. Il paesaggista francese ci fa attraversare luoghi inutilizzati apparentemente abbandonati che in realtà dimostrano come l’uomo sia inequivocabilmente responsabile delle loro trasformazioni. L’estetica di queste trasformazioni però ha qualcosa di magico e codificato, una sorta di programmazione automatica frutto del confronto a distanza uomo - natura. Clément fotografa e disegna ciò che vede, lo descrive con semplicità, raccontando un’arte senza utilità che prende forma all’improvviso. Cumuli di pietre, sacchetti di plastica al vento, cataste di legna, intrecci di fili e cavi elettrici, cancelli sfondati, recinti interrotti. Clément da forma attraverso lo sguardo a ciò che ci circonda e rischiamo di non vedere più, troppo occupati come siamo a consumare immagini. Lo fa cercando di raffigurare una nuova estetica dell’abbandono. Una cartografia visiva che definisce una mappa alternativa dei luoghi che attraversiamo e forse impariamo a conoscere grazie a questa trattazione antica di un mondo futuro.

L'arte di guardare il mondo che si trasforma

luca galofaro
2019-01-01

Abstract

L’arte di guardare il mondo che si trasforma Di luca galofaro Può esistere una forma d’arte senza un’artista che la produca? Questa è la domanda che Giles Clement ci pone attraverso il suo ultimo breve trattato. Ogni libro di Clément è un’esperienza unica, ogni volta che leggo qualcosa di suo, non so perchè, mi trovo inevitabilmente a pensare a John Berger e ai suoi consigli per guardare al mondo. Entrambi sembrano volerci insegnare che la realtà dipende dal nostro modo di guardarla. Scrive Berger È il vedere che determina il nostro posto all’interno del mondo che ci circonda; quel mondo può essere spiegato a parole, ma le parole non posso annullare il fatto che ne siamo circondati. Il rapporto tra ciò che vediamo e ciò che sappiamo non è mai definito una volta per tutte. Clément attraverso, scatti fotografici, parole e segni tracciati velocemente a mano, osserva il paesaggio e lo codifica apertamente dividendolo in categorie espressive. Se i Land Artist avevano cercato di spostare il proprio campo d’azione al di fuori dei luoghi tradizionali e avevano trovato nello sconfinato paesaggio americano il luogo ideale in cui re immaginare l’intervento artistico. Se il dialogo tra interno ed esterno era stato il luogo di scontro tra un arte ambientale ed un pensiero strutturato capace di creare un nuovo linguaggio. Per Gilles Clément succede quasi il contrario un tentativo di reimmaginare la trasformazione lenta e incontrollata del paesaggio attraverso ciò che accade quasi per caso, o involontariamente nello scontro tra natura e l’agire umano. Tanti di noi fotografano quotidianamente frammenti del reale perché intravedono quello che l’arte ci ha mostrato per tanto tempo, ma quasi nessuno ha avuto la consapevolezza di codificare questa lenta ed inevitabile trasformazione, che avviene di continuo ogni giorno attorno a noi. Ettore Sottsass attraverso le sue metafore e attraverso l’uso della fotografia ha tentato di tradurre tutto quello che osservava in progetto. Il suo era un atto volontario di traduzione del reale e come lui molti progettisti cercano il modo di ridefinire i canoni artistici del reale. Clément non vuole trasformare, non ha un progetto da realizzare, semplicemente scrive un trattato attraverso il quale decodificare le trasformazioni e le forme spontanee che definiscono nuovi paesaggi. Non è quindi uno scrittore, un’artista o un critico, ma un semplice osservatore. L’operazione che Clément compie è quella di restituire una forma definita al caso, di trovare un senso ai segni che si trovano intorno a noi, così come hanno fatto prima di lui gli artisti delle Avanguardie novecentesche. L’arte involontaria è il risultato di uno scontro, una collisione inconsapevole, tra naturale ed artificiale, tra scarti, azioni dell’uomo. Un’opera senza firma evidente se non l’appropriazione da parte dell’uomo di quello che in realtà è il paesaggio antropizzato. Se nel manifesto del terzo paesaggio erano gli stessi spazi naturali a resistere all’azione dell’uomo, e ad autogenerarsi secondo un evoluzione spontanea. In questo trattato sull’arte involontaria sono gli spazi aperti, le aree a margine ad assumere nuove conformazioni in relazione alle azioni indirettamente connesse a questi spazi. Clément non rinuncia alla classificazione, sia pure casuale che si articola in voli, accumuli, isole, costruzioni, erosioni, installazioni, tracce, apparizioni. Il paesaggista francese ci fa attraversare luoghi inutilizzati apparentemente abbandonati che in realtà dimostrano come l’uomo sia inequivocabilmente responsabile delle loro trasformazioni. L’estetica di queste trasformazioni però ha qualcosa di magico e codificato, una sorta di programmazione automatica frutto del confronto a distanza uomo - natura. Clément fotografa e disegna ciò che vede, lo descrive con semplicità, raccontando un’arte senza utilità che prende forma all’improvviso. Cumuli di pietre, sacchetti di plastica al vento, cataste di legna, intrecci di fili e cavi elettrici, cancelli sfondati, recinti interrotti. Clément da forma attraverso lo sguardo a ciò che ci circonda e rischiamo di non vedere più, troppo occupati come siamo a consumare immagini. Lo fa cercando di raffigurare una nuova estetica dell’abbandono. Una cartografia visiva che definisce una mappa alternativa dei luoghi che attraversiamo e forse impariamo a conoscere grazie a questa trattazione antica di un mondo futuro.
2019
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