Fabio Mauri nel 1975 con l’opera dal titolo l’ Intellettuale proiettava il film Il Vangelo Secondo Matteo, privo di sonoro, sul petto del suo stesso autore seduto su una sedia al centro della sala del museo. La figura di Pierpaolo Pasolini è emblematica, scrittore, giornalista, regista. Autore capace sempre di mettere in crisi il reale, di provocare sia chi condivideva il suo pensiero sia chi lo osteggiava. L’intellettuale è un opera capace di definire una crisi permanente su cui rifondare un pensiero che è prima di tutto un terreno di scontro e incontro. Nel 1963, La rilettura del Vangelo, libro che aveva trovato sul comodino della sua camera nella foresteria della Pro Civitate prima di intervenire ad un dibattito, aveva spinto Pasolini, pur essendo un marxista non credente,  a realizzare un film sulla vita di Gesù. Pasolini maturò la decisione di raccontare questa storia in una notte, come fosse un’esigenza indipendente dalla sua storia personale. Un film essenziale, privo di ideologismi, che i giornali dell’epoca di posizioni avverse, avevano descritto inaspettatamente così: l’Unità, il nostro cineasta ha soltanto composto il più bel film su Cristo che sia stato fatto finora, e probabilmente il più sincero che egli potesse concepire. Di entrambe le cose gli va dato obiettivamente, ma non entusiasticamente atto.... L’Osservatore Romano: Il più bel film su Gesù di tutti i tempi. Pasolini era un autore che aveva sempre una posizione critica, credeva che il ruolo dell’intellettuale era quello di agire nella società, attraverso il proprio mestiere, era convinto che per un autore fosse fondamentale il confronto e lo scontro per legittimare il proprio pensiero. Attraverso il rito della proiezione Fabio Mauri nella sua istallazione, richiamava il publico ad una evidenza: che le forme espressive non erano che significati ‘reali’, nel senso di implicite a l’universo ‘morale’ dell’uomo. Il termine ‘intellettuale’ comprendeva, per lui, tale dato. Mauri intendeva ricreare un legame ‘fisico’ tra poetica e mondo fuori della tautologia concettuale, che di fatto lo escludeva, richiamando il concetto indispensabile di realtà, che in Pier Paolo Pasolini era stato sempre instancabilmente centrale, mai trasgredito. In un momento storico come quello che stiamo attraversando, da più parti ci si interroga in tutti i campi sull’utilità, necessità e ruolo degli intellettuali. Oggi questa domanda, con l’estrema semplificazione di ciò che è il significato sociale e politico che si attribuisce alla cultura in generale, è ancor più necessaria di quando con l’avvento della post modernità questa crisi è cominciata. L’architettura è sempre con più evidenza una disciplina in stallo, gli architetti hanno perso la capacità di leggere il proprio periodo storico trasformando il progetto in un semplice oggetto di consumo. Oggi questa crisi della disciplina data per scontata da diversi anni deve essere secondo Marco Biraghi rimessa in discussione, perché da più parti si sente la necessità di un ritorno all’impegno e ad un ruolo diverso per l’architetto. La domanda da cui prende forma il libro è di una semplicità estrema. Chi è l’architetto oggi? Nella quasi totalità dei casi, è un professionista il cui mestiere consiste fondamentalmente nel soddisfare, con un impegno e una competenza variabili da individuo a individuo, le richieste della committenza. L’architetto è un individuo dunque che ha perso la sua capacità o ambizione di proporre, soluzioni o pensieri sulla città e sulla società in cui vive, un individuo che ha perduto una visione complessiva, e soprattutto critica della realtà che lo circonda. L’architetto non produce più un pensiero capace di essere interpretato, discusso, messo in crisi dal rapporto con il reale. L’architettura è sempre qualcosa che la società dello spettacolo può e deve consumare, riprodurre e mercificare. Creando nuovi paradigmi che si sovrappongono e deformano lo stato delle nostre coscienze. Il primo luogo in cui tutto questo avviene è la scuola, subito dopo è il mondo della produzione fisica e culturale. Biraghi con questo libro cerca di operare, come aveva fatto Mauri, una proiezione sul corpo degli architetti per ricordargli come il progetto sia sempre stato un tentativo di ridefinire il reale attraverso lo spazio che li circonda. Non solo per creare una lingua, non solo per costruire edifici, ma per pensare ad un mondo diverso, non migliore forse ma semplicemente diverso. E’ davvero necessario costruire per influenzare la costruzione del mondo, bastano gli edifici ben fatti a impostare i cambiamenti sociali o forse è necessario anche altro. Scrivere libri, Insegnare architettura, costruire immagini che definiscono un’attitudine ad interpretare il mondo che cambia, trovare nuove forme di collaborazione e confronto per scardinare l’autorialità del singolo individuo. Marco Biraghi costruisce il suo libro attraverso cinque capitoli, cinque incursioni nella storia passata, presente e speriamo futura dell’architettura. Un libro necessario per continuare a porsi delle domande, ed importante perché individua con coraggio nella figura di Pier Vittorio Aureli, un progettista diverso, forse per alcuni anacronistico, ma capace di gettare le basi per una trasformazione di una professione. Aureli è oggi uno dei pochi architetti in grado di costruire con metodo un’attitudine a pensare il progetto attraverso forme di pensiero diverse. Tutte le forme espressive che usa hanno la stessa importanza, nessuna prevale sull’altra, scrittura, architettura, disegno, insegnamento, hanno costruito una grammatica con cui ognuno di noi che voglia o no si deve confrontare. Non so se questo significa essere intellettuali, sicuramente significa essere architetti.

L'attitudine a pensare attraverso il progetto

luca galofaro
2019-01-01

Abstract

Fabio Mauri nel 1975 con l’opera dal titolo l’ Intellettuale proiettava il film Il Vangelo Secondo Matteo, privo di sonoro, sul petto del suo stesso autore seduto su una sedia al centro della sala del museo. La figura di Pierpaolo Pasolini è emblematica, scrittore, giornalista, regista. Autore capace sempre di mettere in crisi il reale, di provocare sia chi condivideva il suo pensiero sia chi lo osteggiava. L’intellettuale è un opera capace di definire una crisi permanente su cui rifondare un pensiero che è prima di tutto un terreno di scontro e incontro. Nel 1963, La rilettura del Vangelo, libro che aveva trovato sul comodino della sua camera nella foresteria della Pro Civitate prima di intervenire ad un dibattito, aveva spinto Pasolini, pur essendo un marxista non credente,  a realizzare un film sulla vita di Gesù. Pasolini maturò la decisione di raccontare questa storia in una notte, come fosse un’esigenza indipendente dalla sua storia personale. Un film essenziale, privo di ideologismi, che i giornali dell’epoca di posizioni avverse, avevano descritto inaspettatamente così: l’Unità, il nostro cineasta ha soltanto composto il più bel film su Cristo che sia stato fatto finora, e probabilmente il più sincero che egli potesse concepire. Di entrambe le cose gli va dato obiettivamente, ma non entusiasticamente atto.... L’Osservatore Romano: Il più bel film su Gesù di tutti i tempi. Pasolini era un autore che aveva sempre una posizione critica, credeva che il ruolo dell’intellettuale era quello di agire nella società, attraverso il proprio mestiere, era convinto che per un autore fosse fondamentale il confronto e lo scontro per legittimare il proprio pensiero. Attraverso il rito della proiezione Fabio Mauri nella sua istallazione, richiamava il publico ad una evidenza: che le forme espressive non erano che significati ‘reali’, nel senso di implicite a l’universo ‘morale’ dell’uomo. Il termine ‘intellettuale’ comprendeva, per lui, tale dato. Mauri intendeva ricreare un legame ‘fisico’ tra poetica e mondo fuori della tautologia concettuale, che di fatto lo escludeva, richiamando il concetto indispensabile di realtà, che in Pier Paolo Pasolini era stato sempre instancabilmente centrale, mai trasgredito. In un momento storico come quello che stiamo attraversando, da più parti ci si interroga in tutti i campi sull’utilità, necessità e ruolo degli intellettuali. Oggi questa domanda, con l’estrema semplificazione di ciò che è il significato sociale e politico che si attribuisce alla cultura in generale, è ancor più necessaria di quando con l’avvento della post modernità questa crisi è cominciata. L’architettura è sempre con più evidenza una disciplina in stallo, gli architetti hanno perso la capacità di leggere il proprio periodo storico trasformando il progetto in un semplice oggetto di consumo. Oggi questa crisi della disciplina data per scontata da diversi anni deve essere secondo Marco Biraghi rimessa in discussione, perché da più parti si sente la necessità di un ritorno all’impegno e ad un ruolo diverso per l’architetto. La domanda da cui prende forma il libro è di una semplicità estrema. Chi è l’architetto oggi? Nella quasi totalità dei casi, è un professionista il cui mestiere consiste fondamentalmente nel soddisfare, con un impegno e una competenza variabili da individuo a individuo, le richieste della committenza. L’architetto è un individuo dunque che ha perso la sua capacità o ambizione di proporre, soluzioni o pensieri sulla città e sulla società in cui vive, un individuo che ha perduto una visione complessiva, e soprattutto critica della realtà che lo circonda. L’architetto non produce più un pensiero capace di essere interpretato, discusso, messo in crisi dal rapporto con il reale. L’architettura è sempre qualcosa che la società dello spettacolo può e deve consumare, riprodurre e mercificare. Creando nuovi paradigmi che si sovrappongono e deformano lo stato delle nostre coscienze. Il primo luogo in cui tutto questo avviene è la scuola, subito dopo è il mondo della produzione fisica e culturale. Biraghi con questo libro cerca di operare, come aveva fatto Mauri, una proiezione sul corpo degli architetti per ricordargli come il progetto sia sempre stato un tentativo di ridefinire il reale attraverso lo spazio che li circonda. Non solo per creare una lingua, non solo per costruire edifici, ma per pensare ad un mondo diverso, non migliore forse ma semplicemente diverso. E’ davvero necessario costruire per influenzare la costruzione del mondo, bastano gli edifici ben fatti a impostare i cambiamenti sociali o forse è necessario anche altro. Scrivere libri, Insegnare architettura, costruire immagini che definiscono un’attitudine ad interpretare il mondo che cambia, trovare nuove forme di collaborazione e confronto per scardinare l’autorialità del singolo individuo. Marco Biraghi costruisce il suo libro attraverso cinque capitoli, cinque incursioni nella storia passata, presente e speriamo futura dell’architettura. Un libro necessario per continuare a porsi delle domande, ed importante perché individua con coraggio nella figura di Pier Vittorio Aureli, un progettista diverso, forse per alcuni anacronistico, ma capace di gettare le basi per una trasformazione di una professione. Aureli è oggi uno dei pochi architetti in grado di costruire con metodo un’attitudine a pensare il progetto attraverso forme di pensiero diverse. Tutte le forme espressive che usa hanno la stessa importanza, nessuna prevale sull’altra, scrittura, architettura, disegno, insegnamento, hanno costruito una grammatica con cui ognuno di noi che voglia o no si deve confrontare. Non so se questo significa essere intellettuali, sicuramente significa essere architetti.
2019
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