La prospettiva indicata dalla mostra di Rudofsky è da collegare al tenore e alle pieghe del dibattito architettonico europeo nei primi anni della decolonizzazione postbellica. È una fase nel corso della quale si consuma una profonda divisione in seno al movimento moderno, soprattutto a causa della sua visione Top-Down Planning e della colpevole indifferenza verso le diverse realtà storiche che Architecture Without Architects interpreta in modo esemplare: quel fenomeno elementare, noto da sempre, in base al quale nel corso dei secoli e in ogni parte del mondo interi insediamenti sono stati realizzati senza l’intervento di progettisti e architetti. La mostra di Rudofsky, quindi, ripropone, esaltandola, la tensione tra città formale e città informale come tema centrale di riflessione, e lo fa dopo il cambiamento di prospettiva emerso in seno al IX CIAM, dove gli insediamenti autocostruiti sono presentati come modelli di relazione pubblico-privato e incubatori del nuovo concetto di habitat. Il processo progettuale e realizzativo da cui discendono le strutture presentate in Architecture Without Architects è intenzionalmente ripetitivo e sociale. Pur risalendo indietro nei secoli e avendo origine da culture primitive, quel processo non solo si presta a un confronto diretto con la tendenza al lavoro creativo d’équipe, ma si interseca anche con le teorie e pratiche di riciclo in architettura e urbanistica. Resta da capire se l’architettura vernacolare e autocostruita possa rappresentare, pur nella diversità delle espressioni e dei rispettivi contesti storico-geografici, un modello didattico, un riferimento metodologico del tipo learning from, nel contesto della modernità globale.

Bernard Rudofsky (1905-1988). Architecture without architects

DOTI Gerardo
2021-01-01

Abstract

La prospettiva indicata dalla mostra di Rudofsky è da collegare al tenore e alle pieghe del dibattito architettonico europeo nei primi anni della decolonizzazione postbellica. È una fase nel corso della quale si consuma una profonda divisione in seno al movimento moderno, soprattutto a causa della sua visione Top-Down Planning e della colpevole indifferenza verso le diverse realtà storiche che Architecture Without Architects interpreta in modo esemplare: quel fenomeno elementare, noto da sempre, in base al quale nel corso dei secoli e in ogni parte del mondo interi insediamenti sono stati realizzati senza l’intervento di progettisti e architetti. La mostra di Rudofsky, quindi, ripropone, esaltandola, la tensione tra città formale e città informale come tema centrale di riflessione, e lo fa dopo il cambiamento di prospettiva emerso in seno al IX CIAM, dove gli insediamenti autocostruiti sono presentati come modelli di relazione pubblico-privato e incubatori del nuovo concetto di habitat. Il processo progettuale e realizzativo da cui discendono le strutture presentate in Architecture Without Architects è intenzionalmente ripetitivo e sociale. Pur risalendo indietro nei secoli e avendo origine da culture primitive, quel processo non solo si presta a un confronto diretto con la tendenza al lavoro creativo d’équipe, ma si interseca anche con le teorie e pratiche di riciclo in architettura e urbanistica. Resta da capire se l’architettura vernacolare e autocostruita possa rappresentare, pur nella diversità delle espressioni e dei rispettivi contesti storico-geografici, un modello didattico, un riferimento metodologico del tipo learning from, nel contesto della modernità globale.
2021
978-88-6194-459-6
268
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