Narrare l’architettura Di luca galofaro Guardando le foto di Giovanna Silva mi chiedo: si può fotografare il racconto dell’architettura? Nel senso non fotografare l’architettura come oggetto e forma ma come struttura narrativa, come sequenza di sensazioni fisiche legate allo spazio e alla natura dei luoghi. La risposta è custodita in questo libro, basta saperla guardare. Giovanna Silva, prima di cominciare un progetto, individua sempre una storia, che sia legata ad un opera specifica di architettura, ad un architetto come nel caso di Jeffrey Bawa ad una città o a un intero paese, poi pianifica il viaggio seguendo uno script essenziale, sceglie il percorso, alcuni dati che ne orientino il movimento, sceglie sempre di non approfondire troppo prima del viaggio. Lo fa per rimanere lontana dal soggetto, per non farsi coinvolgere dai dati raccolti, non vuole costruire nessuna certezza prima di posare il suo sguardo. Attraverso il viaggio, ricostruisce il percorso conoscitivo tra memoria e interpretazione. Scriveva Baudrillard, che uno dei piaceri del viaggiare consiste nell’immergersi dove altri sono destinati a vivere, e forse è proprio la ricerca dello sguardo abituale sui luoghi distanti è uno dei desideri della Silva. Il viaggio diventa per lei il medium attraverso il quale costruire la propria visione e fotografare un’operazione di puro e semplice montaggio. Costruire immagini è lo strumento attraverso il quale sovrascrivere la storia che ha ispirato il viaggio senza sostituirsi ad essa. in favore di una ricerca dei luoghi nascosti nella memoria di chi li ha costruiti, Silva non posa semplicemente il suo sguardo sull’architettura, si ferma ad osservare e studiare quel confine labile in cui si incontrano mondi diversi, su questa linea di collisione accidentale si innesca un processo di annullamento del linguaggio dell’architettura la visione della ricerca dei luoghi che prendono forma lentamente nella nostra memoria attraverso la visione. Le sequenze fotografiche sono una scrittura lenta capace di svelare una narrazione alternativa alla storia ufficiale. Il suo non è un lavoro che vuole svelare la verità, vuole sottolineare prima di tutto la costruzione di un’ idea di spazio, indagare l’immaginario visivo che è alla base di ogni forma di costruzione. La sua fotografia offre sempre una prospettiva inusuale sull’architettura e il paesaggio che la circonda concentrandosi sugli effetti che questa collisione produce. E’ una forma di ricerca sulle origini del mondo, un movimento capace di generare altre forme. Un lavoro di scavo della visione e al tempo stesso un esercitarsi allo sguardo che ci fa accedere alla dimensione dell’invisibile. Inizio a scattare mentre il mondo ancora dorme, riesco a immergere gli edifici in una dimensione sospesa. Sembrano disabitati, non fosse per le tracce lasciate dagli uomini il giorno prima. Il risultato è una fotografia di architettura sporca, apparentemente inanimata ma costellata di oggetti che testimoniano la vita segreta dell’architettura. Quella vita segreta è tutto quello che oggi abbiamo perso, e vale la pena soffermarsi a cercarla nei dettagli apparentemente più insignificanti. Amo guardare le cose più banali ha detto una volta Robert Frank. Le immagini della Silva sono apparentemente così casuali che difficilmente sembra valga la pena di soffermarcisi. Ma seguendo le sue interminabili sequenze, quando decidiamo di osservarle con più attenzione, scopriamo che gli scatti pagina dopo pagina costruiscono un’unica immagine ripetuta che cerca attraverso la visione soggettiva di raccontare qualcosa di diverso. La fotografia della Silva non è mai duplicazione della realtà, perché la realtà non è mai raffigurata per intero, il taglio dell’immagine consueta costringe l’osservatore a guardarla in modo diverso, progetta non il risultato ma sicuramente l’intenzione del vedere criticamente. Ogni lavoro alla fine è una scrittura per immagini, pensata in forma di libro. I suoi libri vanno letti come atlanti. Fare un atlante significa creare dei tagli, comporre diverse inquadrature, accumularle e montarle. La lettura del reale, attraverso l’atlante si trasforma così in un vero e proprio atto inventivo. Allo stesso modo, colui che legge un atlante crea un proprio percorso interpretativo, operando a sua volta delle scelte. La scelta di inquadrare un singolo particolare costringe l’autore, ma anche l’osservatore a porsi delle domande, mette in moto un discorso che altrimenti non sarebbe mai emerso in superficie. Ed è proprio sfogliare le pagine di questo libro che ci fa ripercorrere il percorso mentale dell’autore, che dopo aver riflettuto sull’immagine e lo spazio che raffigura, torna sui suoi passi per un’altra inquadratura che serve a comprendere meglio. La forma del dittico è utilizzata per farci muovere nello spazio e nel tempo, per mettere a fuoco qualcosa attraverso il movimento. In sintesi, ogni inquadratura porta all’assunzione di una posizione che a sua volta chiama nuove inquadrature che compongono l’intero lavoro. L’architettura è decostruita attraverso una visione cinematica, che di volta in volta mostra oggetti, colori e paesaggi ibridi, nessun dettaglio si impone sull’altro, l’architettura e la natura danzano assieme, sia quando ci troviamo all’esterno che quando siamo in un interno. E’ in questa danza immobile che affiora la personalità dell’architetto che costruendo cerca sempre di rispettare e nutrire il proprio immaginario. Penso che Il muoversi per la Silva sia indistinguibile dal guardare, e non è facile decifrare perché riesce a fermarsi solo per il tempo necessario dello scatto, per poi ripartire. E’ questa breve pausa ad essere importante nel suo narrare. Se ancora state cercando la risposta alla domanda con cui ho cominciato questo breve testo, avrete capito che in questo lavoro specifico Giovanna Silva non ha fotografato l’architettura di Mr Bawa, ma ha viaggiato all’interno della sua immaginazione, ed ha provato a raccontarci un’altra storia.

Narrare l'architettura

luca galofaro
2020-01-01

Abstract

Narrare l’architettura Di luca galofaro Guardando le foto di Giovanna Silva mi chiedo: si può fotografare il racconto dell’architettura? Nel senso non fotografare l’architettura come oggetto e forma ma come struttura narrativa, come sequenza di sensazioni fisiche legate allo spazio e alla natura dei luoghi. La risposta è custodita in questo libro, basta saperla guardare. Giovanna Silva, prima di cominciare un progetto, individua sempre una storia, che sia legata ad un opera specifica di architettura, ad un architetto come nel caso di Jeffrey Bawa ad una città o a un intero paese, poi pianifica il viaggio seguendo uno script essenziale, sceglie il percorso, alcuni dati che ne orientino il movimento, sceglie sempre di non approfondire troppo prima del viaggio. Lo fa per rimanere lontana dal soggetto, per non farsi coinvolgere dai dati raccolti, non vuole costruire nessuna certezza prima di posare il suo sguardo. Attraverso il viaggio, ricostruisce il percorso conoscitivo tra memoria e interpretazione. Scriveva Baudrillard, che uno dei piaceri del viaggiare consiste nell’immergersi dove altri sono destinati a vivere, e forse è proprio la ricerca dello sguardo abituale sui luoghi distanti è uno dei desideri della Silva. Il viaggio diventa per lei il medium attraverso il quale costruire la propria visione e fotografare un’operazione di puro e semplice montaggio. Costruire immagini è lo strumento attraverso il quale sovrascrivere la storia che ha ispirato il viaggio senza sostituirsi ad essa. in favore di una ricerca dei luoghi nascosti nella memoria di chi li ha costruiti, Silva non posa semplicemente il suo sguardo sull’architettura, si ferma ad osservare e studiare quel confine labile in cui si incontrano mondi diversi, su questa linea di collisione accidentale si innesca un processo di annullamento del linguaggio dell’architettura la visione della ricerca dei luoghi che prendono forma lentamente nella nostra memoria attraverso la visione. Le sequenze fotografiche sono una scrittura lenta capace di svelare una narrazione alternativa alla storia ufficiale. Il suo non è un lavoro che vuole svelare la verità, vuole sottolineare prima di tutto la costruzione di un’ idea di spazio, indagare l’immaginario visivo che è alla base di ogni forma di costruzione. La sua fotografia offre sempre una prospettiva inusuale sull’architettura e il paesaggio che la circonda concentrandosi sugli effetti che questa collisione produce. E’ una forma di ricerca sulle origini del mondo, un movimento capace di generare altre forme. Un lavoro di scavo della visione e al tempo stesso un esercitarsi allo sguardo che ci fa accedere alla dimensione dell’invisibile. Inizio a scattare mentre il mondo ancora dorme, riesco a immergere gli edifici in una dimensione sospesa. Sembrano disabitati, non fosse per le tracce lasciate dagli uomini il giorno prima. Il risultato è una fotografia di architettura sporca, apparentemente inanimata ma costellata di oggetti che testimoniano la vita segreta dell’architettura. Quella vita segreta è tutto quello che oggi abbiamo perso, e vale la pena soffermarsi a cercarla nei dettagli apparentemente più insignificanti. Amo guardare le cose più banali ha detto una volta Robert Frank. Le immagini della Silva sono apparentemente così casuali che difficilmente sembra valga la pena di soffermarcisi. Ma seguendo le sue interminabili sequenze, quando decidiamo di osservarle con più attenzione, scopriamo che gli scatti pagina dopo pagina costruiscono un’unica immagine ripetuta che cerca attraverso la visione soggettiva di raccontare qualcosa di diverso. La fotografia della Silva non è mai duplicazione della realtà, perché la realtà non è mai raffigurata per intero, il taglio dell’immagine consueta costringe l’osservatore a guardarla in modo diverso, progetta non il risultato ma sicuramente l’intenzione del vedere criticamente. Ogni lavoro alla fine è una scrittura per immagini, pensata in forma di libro. I suoi libri vanno letti come atlanti. Fare un atlante significa creare dei tagli, comporre diverse inquadrature, accumularle e montarle. La lettura del reale, attraverso l’atlante si trasforma così in un vero e proprio atto inventivo. Allo stesso modo, colui che legge un atlante crea un proprio percorso interpretativo, operando a sua volta delle scelte. La scelta di inquadrare un singolo particolare costringe l’autore, ma anche l’osservatore a porsi delle domande, mette in moto un discorso che altrimenti non sarebbe mai emerso in superficie. Ed è proprio sfogliare le pagine di questo libro che ci fa ripercorrere il percorso mentale dell’autore, che dopo aver riflettuto sull’immagine e lo spazio che raffigura, torna sui suoi passi per un’altra inquadratura che serve a comprendere meglio. La forma del dittico è utilizzata per farci muovere nello spazio e nel tempo, per mettere a fuoco qualcosa attraverso il movimento. In sintesi, ogni inquadratura porta all’assunzione di una posizione che a sua volta chiama nuove inquadrature che compongono l’intero lavoro. L’architettura è decostruita attraverso una visione cinematica, che di volta in volta mostra oggetti, colori e paesaggi ibridi, nessun dettaglio si impone sull’altro, l’architettura e la natura danzano assieme, sia quando ci troviamo all’esterno che quando siamo in un interno. E’ in questa danza immobile che affiora la personalità dell’architetto che costruendo cerca sempre di rispettare e nutrire il proprio immaginario. Penso che Il muoversi per la Silva sia indistinguibile dal guardare, e non è facile decifrare perché riesce a fermarsi solo per il tempo necessario dello scatto, per poi ripartire. E’ questa breve pausa ad essere importante nel suo narrare. Se ancora state cercando la risposta alla domanda con cui ho cominciato questo breve testo, avrete capito che in questo lavoro specifico Giovanna Silva non ha fotografato l’architettura di Mr Bawa, ma ha viaggiato all’interno della sua immaginazione, ed ha provato a raccontarci un’altra storia.
2020
9783775747141
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11581/439568
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