Le libertà collettive all’interno del carcere sono state storicamente guardate con grande sospetto. Il regolamento Rocco, di matrice fascista, si preoccupava principalmente di garantire l’ordine e la sicurezza negli istituti e, a tal fine, utilizzava la strategia dell’atomizzazione degli individui e vietava ogni forma di attività collettiva. La legge del 1975, in linea con le indicazioni costituzionali, ha invece mutato la ratio di fondo dell’ordinamento penitenziario, enunciando la priorità delle esigenze dei detenuti e della garanzia dei loro diritti e libertà, per garantire il rispetto della dignità umana e perseguire il fine di rieducazione, che richiede di guardare al reingresso nella società come “orizzonte del trattamento”. In tale ottica, la legge introduce la possibilità di esercitare alcune libertà collettive (in particolare, quella di riunione per svolgere attività culturali, ricreative, sportive o religiose) pur non riuscendo a smarcarsi a sufficienza dalle ritrosie precedenti: il timore che l’esercizio di queste libertà comporti rischi per la sicurezza all’interno degli istituti e possa costituire occasione per taluni detenuti per acquisire una posizione di preminenza sugli altri occupa ancora una posizione importante (cfr. artt. 32 o.p. e 71 reg. esec.) e, nella prassi, ha sovente inibito una loro concreta implementazione. Si pone dunque una questione di bilanciamento, che si fa particolarmente delicata per via della persistenza – anche in dottrina – della tesi dell’incompatibilità delle libertà collettive con la detenzione. Nello scritto si analizzano dunque, caso per caso, le esigenze sottese agli interessi e diritti da bilanciare, dimostrando perché tale orientamento dottrinale debba ritenersi superato, alla luce delle indicazioni costituzionali riferite sia alla finalità delle pene, sia a ciascuno dei diritti contemplati, nonché della giurisprudenza costituzionale che ha chiaramente enunciato la necessità di intendere il carcere come limitazione della sola libertà personale e non degli altri diritti e libertà costituzionalmente garantiti (i quali possono essere limitati e modellati solo funzione della particolare condizione nella quale se ne svolge l’esercizio e nella misura strettamente necessaria). Il problema si fa, però, particolarmente delicato e complesso con riferimento alle numerose fattispecie di libertà collettive in relazione alle quali la legge sull’ordinamento penitenziario tace (la libertà di riunione per fini di manifestazione del pensiero, il diritto di associazione per il perseguimento di fini comuni) o appare del tutto insoddisfacente (la partecipazione democratica alla vita carceraria, che si risolve nella presenza all’interno di poche commissioni di detenuti selezionati tramite sorteggio). È soprattutto in questi ambiti che emerge chiaramente l’incapacità della normativa attuale (e, di pari passo, di larga parte delle prassi esistenti) di emanciparsi compiutamente dalle enunciate ritrosie. Proprio in questa sede sarebbe invece importante dare avvio ad un radicale cambiamento, poiché vi si gioca un’importante partita per la delineazione del concetto di rieducazione del condannato e della capacità del trattamento penitenziario di guardare al detenuto non più come oggetto, ma come soggetto della rieducazione. È solo tramite un’attuazione effettiva delle libertà collettive, inoltre, che può prospettarsi un’apertura del carcere verso l’esterno, verso la società che, secondo le indicazioni costituzionali, dovrebbe costituire la prospettiva del trattamento penitenziario.

Libertà collettive e detenzione penale

GUARNIER, Tatiana
2017-01-01

Abstract

Le libertà collettive all’interno del carcere sono state storicamente guardate con grande sospetto. Il regolamento Rocco, di matrice fascista, si preoccupava principalmente di garantire l’ordine e la sicurezza negli istituti e, a tal fine, utilizzava la strategia dell’atomizzazione degli individui e vietava ogni forma di attività collettiva. La legge del 1975, in linea con le indicazioni costituzionali, ha invece mutato la ratio di fondo dell’ordinamento penitenziario, enunciando la priorità delle esigenze dei detenuti e della garanzia dei loro diritti e libertà, per garantire il rispetto della dignità umana e perseguire il fine di rieducazione, che richiede di guardare al reingresso nella società come “orizzonte del trattamento”. In tale ottica, la legge introduce la possibilità di esercitare alcune libertà collettive (in particolare, quella di riunione per svolgere attività culturali, ricreative, sportive o religiose) pur non riuscendo a smarcarsi a sufficienza dalle ritrosie precedenti: il timore che l’esercizio di queste libertà comporti rischi per la sicurezza all’interno degli istituti e possa costituire occasione per taluni detenuti per acquisire una posizione di preminenza sugli altri occupa ancora una posizione importante (cfr. artt. 32 o.p. e 71 reg. esec.) e, nella prassi, ha sovente inibito una loro concreta implementazione. Si pone dunque una questione di bilanciamento, che si fa particolarmente delicata per via della persistenza – anche in dottrina – della tesi dell’incompatibilità delle libertà collettive con la detenzione. Nello scritto si analizzano dunque, caso per caso, le esigenze sottese agli interessi e diritti da bilanciare, dimostrando perché tale orientamento dottrinale debba ritenersi superato, alla luce delle indicazioni costituzionali riferite sia alla finalità delle pene, sia a ciascuno dei diritti contemplati, nonché della giurisprudenza costituzionale che ha chiaramente enunciato la necessità di intendere il carcere come limitazione della sola libertà personale e non degli altri diritti e libertà costituzionalmente garantiti (i quali possono essere limitati e modellati solo funzione della particolare condizione nella quale se ne svolge l’esercizio e nella misura strettamente necessaria). Il problema si fa, però, particolarmente delicato e complesso con riferimento alle numerose fattispecie di libertà collettive in relazione alle quali la legge sull’ordinamento penitenziario tace (la libertà di riunione per fini di manifestazione del pensiero, il diritto di associazione per il perseguimento di fini comuni) o appare del tutto insoddisfacente (la partecipazione democratica alla vita carceraria, che si risolve nella presenza all’interno di poche commissioni di detenuti selezionati tramite sorteggio). È soprattutto in questi ambiti che emerge chiaramente l’incapacità della normativa attuale (e, di pari passo, di larga parte delle prassi esistenti) di emanciparsi compiutamente dalle enunciate ritrosie. Proprio in questa sede sarebbe invece importante dare avvio ad un radicale cambiamento, poiché vi si gioca un’importante partita per la delineazione del concetto di rieducazione del condannato e della capacità del trattamento penitenziario di guardare al detenuto non più come oggetto, ma come soggetto della rieducazione. È solo tramite un’attuazione effettiva delle libertà collettive, inoltre, che può prospettarsi un’apertura del carcere verso l’esterno, verso la società che, secondo le indicazioni costituzionali, dovrebbe costituire la prospettiva del trattamento penitenziario.
2017
978-88-9391-180-1
268
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11581/403907
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