Lo stato di crisi economica della società occidentale, che induce una analoga crisi identitaria ed etica, sta creando un’assenza di contenuti teorici e politici che allontanano l’architettura da quello che dovrebbe essere il suo obiettivo principale: migliorare le condizioni di vita dell’uomo. La necessita di tornare ad immaginare il futuro e ad interpretare i desideri dell’uomo verso società e qualità della vita diverse, torna ad essere un’esigenza sulla quale ritrovare un ruolo forte della disciplina architettonica. Compressa tra le arti dell'estetizzazione diffusa è oramai lontana dalla libido aedificandi che ha caratterizzato gli ultimi anni, l’architettura è chiamata a ricostruire un ruolo, una specificità disciplinare, che per la prima volta nella storia sembra sfuggirgli: è possibile che la disciplina suprema, la disciplina della visione che tiene insieme il tutto non abbia più ragione di esistere? La caratteristica più importante dell’architettura, soprattutto italiana è sempre stata quella di ricercare una sintesi tra un pensiero architettonico, una teoria del progetto e una pratica del fare; quella consapevolezza etica, l’impegno, la modestia verso un’idea di bellezza condivisa e percepibile da tutti è venuta meno. E venuta meno la dimensione politica che, a partire da un’idea di società, costruisce il territorio e la sua architettura. Benché sia fin troppo ricorrente la facile accusa verso le distorsioni imposte dalla supremazia del mercato, è innegabile come oggi qualsiasi prodotto sia soggetto ad una logica di marketing: il progetto di un oggetto o di un edificio si piega ad una strategia di produzione e vendita finalizzata alla costruzione ed all'appagamento di desideri più o meno effimeri che, nell'aspirazione del raggiungimento, determinano nuove povertà e nuove ricchezze, aumentando la distanza tra gli individui. Concetti come riappropriazione del futuro, superamento del pensiero dominante, ricerca della felicita, vanno ben oltre le semplici problematiche economiche generate dall'affermazione del neoliberismo amplificato dalla globalizzazione, ma assumono significativi ulteriori rispetto ai quali non è semplice costruire visioni e utopie. Un pensiero teorico in architettura diventa utopia solo quando si carica di valori etici, sociali e politici, cioè quando diventa un pensiero universale e trova riscontro nelle contraddizioni di una realtà che universalmente è bene modificare. Proprio nella riscoperta di una dimensione politica si potrà ritrovare una rinnovata e più complessa specificità disciplinare che differenzi l’architettura dal variegato e onnicomprensivo mondo dell’immagine in cui l’avvento del digitale ha esercitato un ruolo determinante: il virtuale, con la sua capacita di concretizzare sullo schermo l’immagine, ha reso difficile distinguere cosa esiste da cosa non esiste e cioè l’utopia. Da qui il rinnovato interesse verso quel periodo di impegno che, tra gli anni ’60 e ’70, a partire dal superamento positivista del pensiero moderno, dalla messa in discussione del principio di crescita infinita, realizzabile secondo necessita e praticabile con risorse, ha visto molti degli architetti, che da li a poco sarebbero diventati i più importanti del panorama internazionale, affiancare alla normale produzione scientifica un percorso parallelo di immagini visionarie finalizzate all'espressione di un’idea piuttosto che di forme. Una serie di esercizi ginnastici dell’Immaginazione, come scriveva Giulio Carlo Argan in occasione della presentazione della mostra Roma interrotta, caratterizzati da una modalità narrativa fatta di metafore o simboli ispirati ad una capacita di visione. Ripercorrendo la fiducia utopica della bellezza tecnologica interpretata come motore di sviluppo della società, fino ai fotomontaggi delle sperimentazioni dei radicali fiorentini, che rivendicavano un nuovo punto di partenza in cui l’azzeramento del contesto induceva un grado zero della forma, il testo propone le testimonianze di alcuni dei protagonisti principali di quella stagione che rivivono i momenti salienti di quell'esperienza con continui confronti e riferimenti alla realtà attuale. Nel panorama contemporaneo, i temi emergenziali, proprio perché chiari e condivisi, non riescono a costruire un vero humus di ricerca e sperimentazione verso i nuovi scenari utopici: l’avvento del digitale nella città (smart city), la città dispersa nel paesaggio martoriato, i disastri ambientali, la nuova architettura come deriva esclusiva dell’esistente, l’assenza di alloggi sociali, il troppo variegato mondo della sostenibilità, non riescono a stimolare alcun reale desiderio di futuro proprio perché, nella difficoltà di una risposta, risultano già annunciati e probabilmente non cosi drammaticamente rilevanti. Nel mondo occidentale, ognuno dei passaggi utopici più significativi è intervenuto dopo un evento distruttivo, nel momento in cui si è manifestato un dolore lacerante, un pericolo reale di sopravvivenza o un cambiamento radicale dell’abitare il pianeta. Il drammatico passaggio economico che stiamo vivendo in qualche misura sembra poter costituire un terreno fertile sul quale ricostruire visioni d’utopia che leghino la società, il territorio e l’architettura in maniera inscindibile. Anche il disegno, dopo la stagione post-modernista della metafora e dell’analogia, sembra aver ritrovato quella caratteristica di strumento critico e politico completo, dove la rappresentazione diviene necessita, volontà, occasione di racconto di un percorso di ricerca, ma anche speculazione e desiderio. Un tentativo di erodere quella capacita narrativa di futuro che negli ultimi anni è stata appannaggio esclusivo del cinema, della pubblicità, dei videogiochi, in cui si è rappresentata da un lato l’angoscia per ciò che verrà e dall'altro l’illimitata fiducia nella tecnologia. In Italia questa tendenza è contrastata da una generazione di architetti che tornano ad impegnarsi con lo strumento del disegno visionario. Anche se in modo individuale e discontinuo, torna un pensiero teorico che stimola la pratica del disegno per rappresentare visioni di trasformazione di un realtà che ci apparirebbe statica e immodificabile. Proprio a partire da una riflessione sui differenti ruoli che nella storia ha assunto il disegno d’architettura quale strumento di rappresentazione del futuro e di come stia cercando disperatamente di riproporre una sua supremazia non nostalgica, il libro, attraverso le testimonianze di alcuni dei principali protagonisti della stagione delle neoavanguardie, cerca di fare il punto sulle analogie e sulle differenze tra la contemporaneità e quel preciso momento storico. Attraverso una serie di contributi di carattere architettonico e sociologico esplora quegli aspetti contraddittori della società contemporanea e quelle opportunità specifiche della disciplina architettonica sulle quali poter indirizzare l’immaginazione e gli scenari futuri.

UTOPIA E TEORIA. Dalle neoavanguardie alla contemporaneità

EMILI, Anna Rita;ROMAGNI, Ludovico
2016-01-01

Abstract

Lo stato di crisi economica della società occidentale, che induce una analoga crisi identitaria ed etica, sta creando un’assenza di contenuti teorici e politici che allontanano l’architettura da quello che dovrebbe essere il suo obiettivo principale: migliorare le condizioni di vita dell’uomo. La necessita di tornare ad immaginare il futuro e ad interpretare i desideri dell’uomo verso società e qualità della vita diverse, torna ad essere un’esigenza sulla quale ritrovare un ruolo forte della disciplina architettonica. Compressa tra le arti dell'estetizzazione diffusa è oramai lontana dalla libido aedificandi che ha caratterizzato gli ultimi anni, l’architettura è chiamata a ricostruire un ruolo, una specificità disciplinare, che per la prima volta nella storia sembra sfuggirgli: è possibile che la disciplina suprema, la disciplina della visione che tiene insieme il tutto non abbia più ragione di esistere? La caratteristica più importante dell’architettura, soprattutto italiana è sempre stata quella di ricercare una sintesi tra un pensiero architettonico, una teoria del progetto e una pratica del fare; quella consapevolezza etica, l’impegno, la modestia verso un’idea di bellezza condivisa e percepibile da tutti è venuta meno. E venuta meno la dimensione politica che, a partire da un’idea di società, costruisce il territorio e la sua architettura. Benché sia fin troppo ricorrente la facile accusa verso le distorsioni imposte dalla supremazia del mercato, è innegabile come oggi qualsiasi prodotto sia soggetto ad una logica di marketing: il progetto di un oggetto o di un edificio si piega ad una strategia di produzione e vendita finalizzata alla costruzione ed all'appagamento di desideri più o meno effimeri che, nell'aspirazione del raggiungimento, determinano nuove povertà e nuove ricchezze, aumentando la distanza tra gli individui. Concetti come riappropriazione del futuro, superamento del pensiero dominante, ricerca della felicita, vanno ben oltre le semplici problematiche economiche generate dall'affermazione del neoliberismo amplificato dalla globalizzazione, ma assumono significativi ulteriori rispetto ai quali non è semplice costruire visioni e utopie. Un pensiero teorico in architettura diventa utopia solo quando si carica di valori etici, sociali e politici, cioè quando diventa un pensiero universale e trova riscontro nelle contraddizioni di una realtà che universalmente è bene modificare. Proprio nella riscoperta di una dimensione politica si potrà ritrovare una rinnovata e più complessa specificità disciplinare che differenzi l’architettura dal variegato e onnicomprensivo mondo dell’immagine in cui l’avvento del digitale ha esercitato un ruolo determinante: il virtuale, con la sua capacita di concretizzare sullo schermo l’immagine, ha reso difficile distinguere cosa esiste da cosa non esiste e cioè l’utopia. Da qui il rinnovato interesse verso quel periodo di impegno che, tra gli anni ’60 e ’70, a partire dal superamento positivista del pensiero moderno, dalla messa in discussione del principio di crescita infinita, realizzabile secondo necessita e praticabile con risorse, ha visto molti degli architetti, che da li a poco sarebbero diventati i più importanti del panorama internazionale, affiancare alla normale produzione scientifica un percorso parallelo di immagini visionarie finalizzate all'espressione di un’idea piuttosto che di forme. Una serie di esercizi ginnastici dell’Immaginazione, come scriveva Giulio Carlo Argan in occasione della presentazione della mostra Roma interrotta, caratterizzati da una modalità narrativa fatta di metafore o simboli ispirati ad una capacita di visione. Ripercorrendo la fiducia utopica della bellezza tecnologica interpretata come motore di sviluppo della società, fino ai fotomontaggi delle sperimentazioni dei radicali fiorentini, che rivendicavano un nuovo punto di partenza in cui l’azzeramento del contesto induceva un grado zero della forma, il testo propone le testimonianze di alcuni dei protagonisti principali di quella stagione che rivivono i momenti salienti di quell'esperienza con continui confronti e riferimenti alla realtà attuale. Nel panorama contemporaneo, i temi emergenziali, proprio perché chiari e condivisi, non riescono a costruire un vero humus di ricerca e sperimentazione verso i nuovi scenari utopici: l’avvento del digitale nella città (smart city), la città dispersa nel paesaggio martoriato, i disastri ambientali, la nuova architettura come deriva esclusiva dell’esistente, l’assenza di alloggi sociali, il troppo variegato mondo della sostenibilità, non riescono a stimolare alcun reale desiderio di futuro proprio perché, nella difficoltà di una risposta, risultano già annunciati e probabilmente non cosi drammaticamente rilevanti. Nel mondo occidentale, ognuno dei passaggi utopici più significativi è intervenuto dopo un evento distruttivo, nel momento in cui si è manifestato un dolore lacerante, un pericolo reale di sopravvivenza o un cambiamento radicale dell’abitare il pianeta. Il drammatico passaggio economico che stiamo vivendo in qualche misura sembra poter costituire un terreno fertile sul quale ricostruire visioni d’utopia che leghino la società, il territorio e l’architettura in maniera inscindibile. Anche il disegno, dopo la stagione post-modernista della metafora e dell’analogia, sembra aver ritrovato quella caratteristica di strumento critico e politico completo, dove la rappresentazione diviene necessita, volontà, occasione di racconto di un percorso di ricerca, ma anche speculazione e desiderio. Un tentativo di erodere quella capacita narrativa di futuro che negli ultimi anni è stata appannaggio esclusivo del cinema, della pubblicità, dei videogiochi, in cui si è rappresentata da un lato l’angoscia per ciò che verrà e dall'altro l’illimitata fiducia nella tecnologia. In Italia questa tendenza è contrastata da una generazione di architetti che tornano ad impegnarsi con lo strumento del disegno visionario. Anche se in modo individuale e discontinuo, torna un pensiero teorico che stimola la pratica del disegno per rappresentare visioni di trasformazione di un realtà che ci apparirebbe statica e immodificabile. Proprio a partire da una riflessione sui differenti ruoli che nella storia ha assunto il disegno d’architettura quale strumento di rappresentazione del futuro e di come stia cercando disperatamente di riproporre una sua supremazia non nostalgica, il libro, attraverso le testimonianze di alcuni dei principali protagonisti della stagione delle neoavanguardie, cerca di fare il punto sulle analogie e sulle differenze tra la contemporaneità e quel preciso momento storico. Attraverso una serie di contributi di carattere architettonico e sociologico esplora quegli aspetti contraddittori della società contemporanea e quelle opportunità specifiche della disciplina architettonica sulle quali poter indirizzare l’immaginazione e gli scenari futuri.
2016
9788874627899
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11581/390631
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