In principio la ricerca doveva riguardare la sola cupola, che affiora da secoli sul profilo di Roma come il dorso d’un bianco cetaceo architettonico, incutendo il fascino dell’alterità di un Leviatano che omne sublime videt. Come però non mi vedo imbarcato in uno storiografico Pequod, né ancor meno intento ad arpionare le piastre della sua epidermide di piombo, la suggestione è rimasta confinata nella lontananza degli stati d’animo. Col tempo mi sono accorto che la cupola di San Pietro assomigliava piuttosto a uno sferico Aleph, un luogo dove si trovavano, senza confondersi, tutti i luoghi, visti da tutti gli angoli: la cupola rimandava alla basilica che la sostiene, e la basilica ai suoi motivi simbolici, culturali, artistici, implicando universi concettuali via via sempre più ramificati e dispersi nella storia politica, sociale, economica, religiosa, tecnologica, materiale. La ricerca si è perciò estesa al finanziamento della Fabbrica, al suo bilancio, alla struttura amministrativa e al ruolo degli architetti in essa, alle singole classi di opere e maestranti con riguardo alle tecniche, ai materiali, ai loro luoghi di origine e modi di trasporto, che generarono una peculiare geografia urbana e territoriale di San Pietro: è stato così possibile accertare che i meccanismi amministrativi e tecnici della Fabbrica hanno influito sui tempi e le fasi del cantiere vaticano assai più che le scelte dei singoli, dando ragione delle alternanti fortune dei lavori e sciogliendo nodi sino a ora insoluti. A questi temi è dedicato il capitolo iniziale, e le due prime appendici, che contengono anche il calcolo delle somme entrate e uscite per le opere alla basilica da Paolo III a Clemente VIII, anno per anno, pontefice per pontefice.Liberati dall’enfasi retorica, gli accadimenti di San Pietro mostrano la trama grezza del loro tessuto storico. Le sublimi idee di pontefici e architetti poggiarono su una base malferma d’interessi ordinari, talora corrivi, su ambizioni politiche e personali, su fragilissime vanità umane (è anche il caso di Michelangelo), e infine sul cieco caso di vicende che sopravvennero e interferirono senza possedere cause comuni, sino a un esito quasi miracolosamente felice, che chi crede può motivatamente riferire alla Provvidenza. La basilica vaticana e la sua cupola, «sì bella e terribil machina», frutto d’immani fatiche intellettuali e materiali, non sempre premiate, sono dunque il risultato del contrastato convergere di fatti incerti. E i fatti, per dirla con le parole del Maestro bulgakoviano, sono la cosa più ostinata del mondo, con cui occorre confrontarsi. La forma architettonica assunta da San Pietro, tuttavia, non è il frutto di condizioni storiche generali o semplicemente materiali. Le sue cause primarie restano artistiche, legate alla cultura diffusa delle centinaia di maestranti, e più ancora alle poche personalità di spicco che ne stabilirono il disegno, generale e di dettaglio. Tra loro, è chiaro, la figura di Michelangelo Buonarroti è quella che ha gettato sulla Fabbrica le maggiori luci, e di conseguenza anche le maggiori ombre. Le pagine dedicate al grande maestro potranno sorprendere il lettore, abituato all’esaltazione rituale e consuetudinaria del suo genio. Qui ho al contrario cercato di distinguere l’opera dal suo autore, di modo che le qualità formali della prima non fossero spiegate con le virtù morali del secondo, o il contrario, che è anche peggio. Pur nel rispetto dei grandi maestri della storiografia stilistica novecentesca, ho rinunciato a individuare nell’opera buonarrotiana i tormentati contrasti di linee di forza orizzontali e verticali, di luce e ombra, di staticità e dinamicità, di classicismo e anticlassicismo, non condividendo inoltre l’antica convinzione secondo la quale Michelangelo sarebbe rimasto in fondo uno scultore anche quando faceva architettura. Seguendo le linee della storiografia recente, ho invece ritenuto più interessante esaminare i caratteri schiettamente disciplinari dell’architettura buonarrotiana, come il peculiare uso sintattico dell’ordine architettonico, o la moderna ricerca di un organismo statico costituito da volte spingenti che si autoequilibrano: caratteri che non scaturiscono dal semplice genio plastico, ma che testimoniano una meditata ricezione michelangiolesca prima dell’architettura di Brunelleschi, e poi di quella di Bramante e dei suoi allievi, per quanto anomala e mai confessata. Dell’opera in San Pietro del fiorentino si tratta in entrambe le parti in cui il volume dei saggi è diviso, una dedicata alle opere alla basilica l’altra alla cupola. Nel capitolo Michelangelo e San Pietro si discute delle probabili ragioni che lo condussero ad accettare l’incarico, dei difficili rapporti con i deputati, della fantomatica setta sangallesca. Si delinea poi la singolare accezione che Buonarroti ebbe a Firenze dell’arte architettonica, affatto distinta dalla scultura e di natura eminentemente geometrica e astratta, composta «per via di porre» col montaggio di blocchi virtualmente lapidei. Quindi si mostrano le conseguenze che il contatto con il San Pietro di Bramante e Sangallo ebbe nel nuovo interesse michelangiolesco verso forme più sintattiche, e verso gli organismi voltati; e all’inverso, si discutono gli effetti sull’architettura di San Pietro degli interventi del fiorentino, eseguiti a pezzo a pezzo nel corso degli anni – tanto da potersi rilevare un’evolutività tra i primi e gli ultimi interventi – secondo una logica aggregativa di parti distinte che è squisitamente buonarrotiana. Nel capitolo che segue s’illustrano le opere compiute nel cantiere michelangiolesco nella loro processualità, indicandone tempi e modi, e i periodi di maggiore o minore attività secondo i contestuali eventi storici. Oltre alle inedite risultanze documentali, che consentono di seguire i lavori con un certo dettaglio, si propongono nuove ipotesi sui modelli, sulle cappelle angolari e sulla calotta dell’abside del Re; si chiariscono i rapporti tra Michelangelo e i diversi pontefici, quelli delicatissimi con il duca Cosimo, e i suoi comportamenti nei momenti cruciali, come la guerra del 1556- 1557, che aiutano a comprendere le strategie dei lavori vaticani.L’ombra del fiorentino si allunga anche sul capitolo dedicato al cantiere di Ligorio e Vignola, durante il quale si eseguì, precisandolo, il progetto della basilica, non del tutto definito dal maestro. Si dà conto della conclusione dei nuovi attici della cappella dell’Imperatore, di cui si mostra l’autografia michelangiolesca, del ricambio di maestranze operato da Ligorio, del contrastato atteggiamento di Pio V verso la Fabbrica, della crisi del 1566 e della ripresa dei lavori nel marzo 1567 secondo un progetto definito da Vignola, discutendo la paternità delle lanterne e della facciata rappresentate da Dupérac, che rimane assai incerta. L’allure umana e intellettuale di Giacomo Della Porta non è stata irresistibile. Eppure è a lui che si deve buona parte dell’aspetto dell’attuale capocroce della basilica vaticana. Un capitolo è dedicato alla sua attività pietrina, con una premessa sulla nuova soglia di modernità oltrepassata dalla cultura romana, non solo architettonica, nell’ultimo quarto del Cinquecento: una modernità fondata sul pragmatismo, l’impersonalità, il conformismo tipologico e formale, e al contempo su un uso efficiente e spregiudicato delle tecniche rinascimentali. Ai lavori dellaportiani sotto i pontificati di Gregorio XIII e Sisto V, che giungono a voltare la cupola – e dunque a completare virtualmente il corpo michelangiolesco di San Pietro – seguono quelli sotto Gregorio XIV e soprattutto Clemente VIII, questi ultimi finanziariamente imponenti, volti ad accendere gli interni della basilica con superfici lucide, brillanti, colorate, sconvolgendo i valori formali ricercati dai maestri cinquecenteschi, schiettamente sintattici e strutturali. È stato possibile ricostruire nel dettaglio le vicende della cappella Gregoriana, notevole per il suo significato dottrinaleecumenico, precorritrice inoltre del nuovo gusto formale e della disponibilità di Della Porta ad assecondarlo; ricostruibili documentalmente sono anche le opere alle altre cappelle angolari, la demolizione dei resti bramanteschi, il pavimento, le Grotte, i cibori-baldacchini di crociera, le rifiniture clementine di pareti e volte, le due lanterne (con la revisione del loro sesto), e così via. La seconda parte del volume dei testi tratta della cupola, tema isolabile sia dal punto di vista ideativo che da quello edilizio e cantieristico. Nel capitolo iniziale si discutono le proposte premichelangiolesche. Del progetto di Rossellino si mette in luce l’assoluta novità tipologica del martyrium moderno a crociera cupolata, incastrato a fatica tra il potente capocroce voltato e le esili pareti della basilica tardoantica. Più ricco e originale il contributo di Bramante, che proprio per sostenere il suo colossale mausoleo dell’Apostolo giunge a concepire l’ottagono irregolare, desunto dal San Lorenzo milanese, integrato al quincunx in un organismo perfetto di volumi semplici e strutture voltate spingenti, rilegati senza residui dalla sintassi dell’ordine. La cupola bramantesca è analizzata nei suoi caratteri formali e simbolici di moderna tholos periptera, che evoca l’antichità senza imitarla, e in quelli costruttivi, mettendo in dubbio la sua irrealizzabilità. Si ricostruisce quindi il percorso progettuale seguito da Antonio da Sangallo nel riformare la cupola, sino alla sua ultima formidabile proposta, misconosciuta ancor oggi, il cui gigantismo parossisitico non è meno onirico nell’evocare l’antichità e il carattere funebre-eroico del santuario pietrino, tanto da anticipare sensibilità piranesiane. Sono analizzate misure, tecniche e sesti delle varie proposte, dal distillato geometrico del Pantheon eseguito da Bramante, all’ingegnoso sesto ovale dell’ultima versione di Sangallo. Nel capitolo che segue s’individua l’organismo costruttivo della cupola ideata da Michelangelo, rivoluzionariamente fondata sulla leggerezza di due sottili calotte staccate, geometricamente indipendenti, desunte non da Santa Maria del Fiore, concepita in tutt’altra maniera, bensì dalle cupole di Santo Spirito a Firenze. Si seguono i passi del pensiero michelangiolesco nei pochi grafici superstiti, rilevando i curiosi e incongruenti profili ovali del disegno di Haarlem, e la contestuale evoluzione del tamburo, da cilindrico a radiale, forato prima da occhi tondi, quindi da finestre rettangolari compiutamente definite solo dopo il 1562. Si sono poi individuati due stadi nel modello 1558-1561, e ipotizzati gli ultimi sesti elaborati dal fiorentino, tendenti a definire calotte semisferiche, contraffortate al terzo da speroni parziali e da una volta anulare. Quanto al modello ligneo, si dà conto dei tempi del suo approntamento e dei rifacimenti settecenteschi, mostrando la paternità vanvitelliana dell’attuale calotta esterna.L’ultimo capitolo è dedicato alla grande impresa dellaportiana. Discussi i precoci dubbi sulla fragilità del congegno michelangiolesco, vengono ricostruite le fasi preparatorie dell’opera, la speciale autonomia amministrativa concessa al cantiere, il suo organismo tecnico, il ruolo in esso di Della Porta, i materiali usati, e infine ogni singolo lavoro compiuto, dal completamento delle imposte del tamburo al fastigio in bronzo della lanterna, sino alle costole dorate poste in opera entro il gennaio 1606. Ma soprattutto si è cercato di cogliere l’originalità strutturale e formale delle modifiche dellaportiane, che non furono dovute a un’ingenua incomprensione dei progetti del grande Buonarroti, ma a un’intelligente riflessione sui loro difetti statici, e a consapevoli scelte sul piano formale. Si mostrerà come Giacomo, riaccostandosi al modello brunelleschiano di Santa Maria del Fiore, sia pervenuto a un tipo costruttivo assolutamente originale, che inaugura i modi strutturali barocchi assai più della proposta michelangiolesca, culturalmente ferma alla statica del primo rinascimento. La vastità di materiale documentario conservato all’Archivio storico della Fabbrica di San Pietro ha costretto a compilare un ampio repertorio di trascrizioni, ordinate per argomento e commentate, col quale si è cercato di restituire il convulso vorticare dei fatti, maggiori e minori, che hanno contribuito nel secondo Cinquecento a produrre la basilica e la sua cupola quali oggi le vediamo. Il repertorio è stato diviso in cinque appendici. Nella prima si tratta dell’organismo giuridico, amministrativo ed economico della Fabbrica, dei suoi attori, dei maggiori memoriali che descrivono i lavori; nella seconda sono raccolti brani che testimoniano le concrete pratiche del cantiere, la sua topografia, le sue forniture, le maggiori classi di opere e materiali, con interesse alla geografia economica della Fabbrica. Queste due appendici iniziali costituiscono un frammento di storia materiale romana del XVI secolo, e si rivolgono anche a studiosi di discipline storico-economiche. I lavori concretamente eseguiti interessano invece le appendici terza e quarta, dedicate rispettivamente alla basilica e alla cupola; sono ordinate per luoghi d’intervento e per cronologia; nel caso della cupola ho preposto dei paragrafi introduttivi dedicati all’organismo economico, amministrativo e tecnico del cantiere, ai suoi materiali e maestranti. L’ultima appendice raccoglie le note relative ai modelli michelangioleschi, con esclusione di quello dell’abside del Re, non ricordato da alcuna nota dell’Archivio storico della Fabbrica di San Pietro, e di cui peraltro si tratta nel testo e si fornisce un nuovo rilievo di Carla Trovini. Per esporre compiutamente quanto precede la parola non sarebbe stata sufficiente, e si è così dovuto ricorrere a strumenti visuali, che sono in molti casi più immediati e precisi. Il volume contiene per questo circa sessanta grafici originali, quasi tutti digitali, distribuiti tra il testo e le appendici, dove formano dei piccoli atlanti che visualizzano il territorio della Fabbrica e la sequenza delle opere alla basilica e alla cupola.

La basilica di San Pietro da Michelangelo a Della Porta

BELLINI, Federico
2011-01-01

Abstract

In principio la ricerca doveva riguardare la sola cupola, che affiora da secoli sul profilo di Roma come il dorso d’un bianco cetaceo architettonico, incutendo il fascino dell’alterità di un Leviatano che omne sublime videt. Come però non mi vedo imbarcato in uno storiografico Pequod, né ancor meno intento ad arpionare le piastre della sua epidermide di piombo, la suggestione è rimasta confinata nella lontananza degli stati d’animo. Col tempo mi sono accorto che la cupola di San Pietro assomigliava piuttosto a uno sferico Aleph, un luogo dove si trovavano, senza confondersi, tutti i luoghi, visti da tutti gli angoli: la cupola rimandava alla basilica che la sostiene, e la basilica ai suoi motivi simbolici, culturali, artistici, implicando universi concettuali via via sempre più ramificati e dispersi nella storia politica, sociale, economica, religiosa, tecnologica, materiale. La ricerca si è perciò estesa al finanziamento della Fabbrica, al suo bilancio, alla struttura amministrativa e al ruolo degli architetti in essa, alle singole classi di opere e maestranti con riguardo alle tecniche, ai materiali, ai loro luoghi di origine e modi di trasporto, che generarono una peculiare geografia urbana e territoriale di San Pietro: è stato così possibile accertare che i meccanismi amministrativi e tecnici della Fabbrica hanno influito sui tempi e le fasi del cantiere vaticano assai più che le scelte dei singoli, dando ragione delle alternanti fortune dei lavori e sciogliendo nodi sino a ora insoluti. A questi temi è dedicato il capitolo iniziale, e le due prime appendici, che contengono anche il calcolo delle somme entrate e uscite per le opere alla basilica da Paolo III a Clemente VIII, anno per anno, pontefice per pontefice.Liberati dall’enfasi retorica, gli accadimenti di San Pietro mostrano la trama grezza del loro tessuto storico. Le sublimi idee di pontefici e architetti poggiarono su una base malferma d’interessi ordinari, talora corrivi, su ambizioni politiche e personali, su fragilissime vanità umane (è anche il caso di Michelangelo), e infine sul cieco caso di vicende che sopravvennero e interferirono senza possedere cause comuni, sino a un esito quasi miracolosamente felice, che chi crede può motivatamente riferire alla Provvidenza. La basilica vaticana e la sua cupola, «sì bella e terribil machina», frutto d’immani fatiche intellettuali e materiali, non sempre premiate, sono dunque il risultato del contrastato convergere di fatti incerti. E i fatti, per dirla con le parole del Maestro bulgakoviano, sono la cosa più ostinata del mondo, con cui occorre confrontarsi. La forma architettonica assunta da San Pietro, tuttavia, non è il frutto di condizioni storiche generali o semplicemente materiali. Le sue cause primarie restano artistiche, legate alla cultura diffusa delle centinaia di maestranti, e più ancora alle poche personalità di spicco che ne stabilirono il disegno, generale e di dettaglio. Tra loro, è chiaro, la figura di Michelangelo Buonarroti è quella che ha gettato sulla Fabbrica le maggiori luci, e di conseguenza anche le maggiori ombre. Le pagine dedicate al grande maestro potranno sorprendere il lettore, abituato all’esaltazione rituale e consuetudinaria del suo genio. Qui ho al contrario cercato di distinguere l’opera dal suo autore, di modo che le qualità formali della prima non fossero spiegate con le virtù morali del secondo, o il contrario, che è anche peggio. Pur nel rispetto dei grandi maestri della storiografia stilistica novecentesca, ho rinunciato a individuare nell’opera buonarrotiana i tormentati contrasti di linee di forza orizzontali e verticali, di luce e ombra, di staticità e dinamicità, di classicismo e anticlassicismo, non condividendo inoltre l’antica convinzione secondo la quale Michelangelo sarebbe rimasto in fondo uno scultore anche quando faceva architettura. Seguendo le linee della storiografia recente, ho invece ritenuto più interessante esaminare i caratteri schiettamente disciplinari dell’architettura buonarrotiana, come il peculiare uso sintattico dell’ordine architettonico, o la moderna ricerca di un organismo statico costituito da volte spingenti che si autoequilibrano: caratteri che non scaturiscono dal semplice genio plastico, ma che testimoniano una meditata ricezione michelangiolesca prima dell’architettura di Brunelleschi, e poi di quella di Bramante e dei suoi allievi, per quanto anomala e mai confessata. Dell’opera in San Pietro del fiorentino si tratta in entrambe le parti in cui il volume dei saggi è diviso, una dedicata alle opere alla basilica l’altra alla cupola. Nel capitolo Michelangelo e San Pietro si discute delle probabili ragioni che lo condussero ad accettare l’incarico, dei difficili rapporti con i deputati, della fantomatica setta sangallesca. Si delinea poi la singolare accezione che Buonarroti ebbe a Firenze dell’arte architettonica, affatto distinta dalla scultura e di natura eminentemente geometrica e astratta, composta «per via di porre» col montaggio di blocchi virtualmente lapidei. Quindi si mostrano le conseguenze che il contatto con il San Pietro di Bramante e Sangallo ebbe nel nuovo interesse michelangiolesco verso forme più sintattiche, e verso gli organismi voltati; e all’inverso, si discutono gli effetti sull’architettura di San Pietro degli interventi del fiorentino, eseguiti a pezzo a pezzo nel corso degli anni – tanto da potersi rilevare un’evolutività tra i primi e gli ultimi interventi – secondo una logica aggregativa di parti distinte che è squisitamente buonarrotiana. Nel capitolo che segue s’illustrano le opere compiute nel cantiere michelangiolesco nella loro processualità, indicandone tempi e modi, e i periodi di maggiore o minore attività secondo i contestuali eventi storici. Oltre alle inedite risultanze documentali, che consentono di seguire i lavori con un certo dettaglio, si propongono nuove ipotesi sui modelli, sulle cappelle angolari e sulla calotta dell’abside del Re; si chiariscono i rapporti tra Michelangelo e i diversi pontefici, quelli delicatissimi con il duca Cosimo, e i suoi comportamenti nei momenti cruciali, come la guerra del 1556- 1557, che aiutano a comprendere le strategie dei lavori vaticani.L’ombra del fiorentino si allunga anche sul capitolo dedicato al cantiere di Ligorio e Vignola, durante il quale si eseguì, precisandolo, il progetto della basilica, non del tutto definito dal maestro. Si dà conto della conclusione dei nuovi attici della cappella dell’Imperatore, di cui si mostra l’autografia michelangiolesca, del ricambio di maestranze operato da Ligorio, del contrastato atteggiamento di Pio V verso la Fabbrica, della crisi del 1566 e della ripresa dei lavori nel marzo 1567 secondo un progetto definito da Vignola, discutendo la paternità delle lanterne e della facciata rappresentate da Dupérac, che rimane assai incerta. L’allure umana e intellettuale di Giacomo Della Porta non è stata irresistibile. Eppure è a lui che si deve buona parte dell’aspetto dell’attuale capocroce della basilica vaticana. Un capitolo è dedicato alla sua attività pietrina, con una premessa sulla nuova soglia di modernità oltrepassata dalla cultura romana, non solo architettonica, nell’ultimo quarto del Cinquecento: una modernità fondata sul pragmatismo, l’impersonalità, il conformismo tipologico e formale, e al contempo su un uso efficiente e spregiudicato delle tecniche rinascimentali. Ai lavori dellaportiani sotto i pontificati di Gregorio XIII e Sisto V, che giungono a voltare la cupola – e dunque a completare virtualmente il corpo michelangiolesco di San Pietro – seguono quelli sotto Gregorio XIV e soprattutto Clemente VIII, questi ultimi finanziariamente imponenti, volti ad accendere gli interni della basilica con superfici lucide, brillanti, colorate, sconvolgendo i valori formali ricercati dai maestri cinquecenteschi, schiettamente sintattici e strutturali. È stato possibile ricostruire nel dettaglio le vicende della cappella Gregoriana, notevole per il suo significato dottrinaleecumenico, precorritrice inoltre del nuovo gusto formale e della disponibilità di Della Porta ad assecondarlo; ricostruibili documentalmente sono anche le opere alle altre cappelle angolari, la demolizione dei resti bramanteschi, il pavimento, le Grotte, i cibori-baldacchini di crociera, le rifiniture clementine di pareti e volte, le due lanterne (con la revisione del loro sesto), e così via. La seconda parte del volume dei testi tratta della cupola, tema isolabile sia dal punto di vista ideativo che da quello edilizio e cantieristico. Nel capitolo iniziale si discutono le proposte premichelangiolesche. Del progetto di Rossellino si mette in luce l’assoluta novità tipologica del martyrium moderno a crociera cupolata, incastrato a fatica tra il potente capocroce voltato e le esili pareti della basilica tardoantica. Più ricco e originale il contributo di Bramante, che proprio per sostenere il suo colossale mausoleo dell’Apostolo giunge a concepire l’ottagono irregolare, desunto dal San Lorenzo milanese, integrato al quincunx in un organismo perfetto di volumi semplici e strutture voltate spingenti, rilegati senza residui dalla sintassi dell’ordine. La cupola bramantesca è analizzata nei suoi caratteri formali e simbolici di moderna tholos periptera, che evoca l’antichità senza imitarla, e in quelli costruttivi, mettendo in dubbio la sua irrealizzabilità. Si ricostruisce quindi il percorso progettuale seguito da Antonio da Sangallo nel riformare la cupola, sino alla sua ultima formidabile proposta, misconosciuta ancor oggi, il cui gigantismo parossisitico non è meno onirico nell’evocare l’antichità e il carattere funebre-eroico del santuario pietrino, tanto da anticipare sensibilità piranesiane. Sono analizzate misure, tecniche e sesti delle varie proposte, dal distillato geometrico del Pantheon eseguito da Bramante, all’ingegnoso sesto ovale dell’ultima versione di Sangallo. Nel capitolo che segue s’individua l’organismo costruttivo della cupola ideata da Michelangelo, rivoluzionariamente fondata sulla leggerezza di due sottili calotte staccate, geometricamente indipendenti, desunte non da Santa Maria del Fiore, concepita in tutt’altra maniera, bensì dalle cupole di Santo Spirito a Firenze. Si seguono i passi del pensiero michelangiolesco nei pochi grafici superstiti, rilevando i curiosi e incongruenti profili ovali del disegno di Haarlem, e la contestuale evoluzione del tamburo, da cilindrico a radiale, forato prima da occhi tondi, quindi da finestre rettangolari compiutamente definite solo dopo il 1562. Si sono poi individuati due stadi nel modello 1558-1561, e ipotizzati gli ultimi sesti elaborati dal fiorentino, tendenti a definire calotte semisferiche, contraffortate al terzo da speroni parziali e da una volta anulare. Quanto al modello ligneo, si dà conto dei tempi del suo approntamento e dei rifacimenti settecenteschi, mostrando la paternità vanvitelliana dell’attuale calotta esterna.L’ultimo capitolo è dedicato alla grande impresa dellaportiana. Discussi i precoci dubbi sulla fragilità del congegno michelangiolesco, vengono ricostruite le fasi preparatorie dell’opera, la speciale autonomia amministrativa concessa al cantiere, il suo organismo tecnico, il ruolo in esso di Della Porta, i materiali usati, e infine ogni singolo lavoro compiuto, dal completamento delle imposte del tamburo al fastigio in bronzo della lanterna, sino alle costole dorate poste in opera entro il gennaio 1606. Ma soprattutto si è cercato di cogliere l’originalità strutturale e formale delle modifiche dellaportiane, che non furono dovute a un’ingenua incomprensione dei progetti del grande Buonarroti, ma a un’intelligente riflessione sui loro difetti statici, e a consapevoli scelte sul piano formale. Si mostrerà come Giacomo, riaccostandosi al modello brunelleschiano di Santa Maria del Fiore, sia pervenuto a un tipo costruttivo assolutamente originale, che inaugura i modi strutturali barocchi assai più della proposta michelangiolesca, culturalmente ferma alla statica del primo rinascimento. La vastità di materiale documentario conservato all’Archivio storico della Fabbrica di San Pietro ha costretto a compilare un ampio repertorio di trascrizioni, ordinate per argomento e commentate, col quale si è cercato di restituire il convulso vorticare dei fatti, maggiori e minori, che hanno contribuito nel secondo Cinquecento a produrre la basilica e la sua cupola quali oggi le vediamo. Il repertorio è stato diviso in cinque appendici. Nella prima si tratta dell’organismo giuridico, amministrativo ed economico della Fabbrica, dei suoi attori, dei maggiori memoriali che descrivono i lavori; nella seconda sono raccolti brani che testimoniano le concrete pratiche del cantiere, la sua topografia, le sue forniture, le maggiori classi di opere e materiali, con interesse alla geografia economica della Fabbrica. Queste due appendici iniziali costituiscono un frammento di storia materiale romana del XVI secolo, e si rivolgono anche a studiosi di discipline storico-economiche. I lavori concretamente eseguiti interessano invece le appendici terza e quarta, dedicate rispettivamente alla basilica e alla cupola; sono ordinate per luoghi d’intervento e per cronologia; nel caso della cupola ho preposto dei paragrafi introduttivi dedicati all’organismo economico, amministrativo e tecnico del cantiere, ai suoi materiali e maestranti. L’ultima appendice raccoglie le note relative ai modelli michelangioleschi, con esclusione di quello dell’abside del Re, non ricordato da alcuna nota dell’Archivio storico della Fabbrica di San Pietro, e di cui peraltro si tratta nel testo e si fornisce un nuovo rilievo di Carla Trovini. Per esporre compiutamente quanto precede la parola non sarebbe stata sufficiente, e si è così dovuto ricorrere a strumenti visuali, che sono in molti casi più immediati e precisi. Il volume contiene per questo circa sessanta grafici originali, quasi tutti digitali, distribuiti tra il testo e le appendici, dove formano dei piccoli atlanti che visualizzano il territorio della Fabbrica e la sequenza delle opere alla basilica e alla cupola.
2011
9788888690377
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