Architectura in Nuce Bruno Zevi Quodilibet 2018 «La critica architettonica, e perciò la storia dell’architettura, non serve soltanto a far rivivere il passato o a consacrare con un premio l’opera di questo o quell’artista contemporaneo: essa decide le sorti stesse dell’architettura antica e moderna». Siamo nel centenario della nascita di Bruno Zevi, tra le iniziative che celebrano questo anniversario, la ristampa anastatica di Architectura in Nuce è un momento importante per due motivi. Il primo è legato alla speranza che questo libro rientri nelle scuole, per supportare la storia e la critica dell’architettura che negli ultimi anni non è più un momento fondamentale nella formazione degli studenti di architettura. Il lavoro degli storici purtroppo viaggia su un binario parallelo a quello degli architetti, nessuno guarda più il lavoro degli altri, spesso quella critica operativa e coinvolgente tanto amata da Zevi è passata nelle mani di architetti che affiancano alla loro attività di progettisti quella di studiosi della storia. Una sperimentazione ed un azione di reinterpretazione la loro, utile allo sviluppo del progetto, che sarebbe piaciuta molto a Bruno Zevi. La seconda, la più importante perché a distanza di quasi sessant’anni questo libro è ancora di grande attualità per il modo in cui i testi si relazionano con le immagini per indagare e capire lo spazio. 247 pagine e circa 399 illustrazioni danno la dimensione di come Bruno Zevi sia stato capace di anticipare i tempi. Il suo discorso critico infatti non era costruito solo sulle parole ma sulla sequenza di immagini che diventavano un testo dentro il testo. Questo non significa che Zevi aveva bisogno di illustrare le sue parole, ma sentiva la necessità di procedere con il ragionamento facendo viaggiare il lettore tra le immagini. Zevi ha amato appassionatamente le fotografie, preferiva sequenze invece che immagini singole scelte unicamente per rappresentare l’oggetto architettonico. Cercava di restituire attraverso le sequenze create tra tempi e luoghi la complessità dello spazio. Sembrava interessarsi più all’opportunità che queste immagini offrivano all’osservatore, spesso le accompagnava con lunghe didascalie. L’uso dell’immagine è una forma di interpretazione non razionale che procede per associazioni di idee, analogie di forme e di senso, spesso focalizzandosi su un dettaglio dell’immagine, secondo un principio che per certi versi prefigura la teoria del Punctum di Roland Barthes. L’immagine è per Zevi uno spazio aperto un supporto efficace per chi guarda. Il documento fotografico diventa un potente strumento di stimolo e di rigenerazione poetica. Questo è il libro che forse meglio rappresenta la maturità di Bruno Zevi, Architettura in nuce è infatti tanto un omaggio all’estetica di Benedetto Croce quanto un’originale applicazione della dialettica all’architettura, la costruzione di un discorso di senso che ripercorre la storia secondo una logica non lineare, che segue il filo dell’interpretazione critica dell’autore. Il libro è diviso in tre parti, la prima la più teorica e quella forse più complessa, in cui Zevi attraverso una sovrapposizione di citazioni cerca di dare una definizione dell’architettura. La sua scrittura cerca di definire il significato di spazio partendo dallo spazio interno vero e proprio centro del discorso; la seconda, si sofferma sul metodo e sui problemi della storiografia, Zevi rafforza la sua posizione personale rileggendo la storia che è stata già scritta; la terza, dimostra la necessità di far convergere nella sua idea di architettura altre discipline che fino a quel momento mantenevano una loro autonomia, ingegneria, urbanistica, design, scrivono lo spazio. Zevi non fa altro che cercare di tradurre in chiave architettonica la tripartizione crociana poesia, non poesia, anti poesia. Questa edizione è arricchita di una prefazione di Rafael Moneo che aveva tradotto il libro in spagnolo. L’architetto spagnolo sostiene che in Architettura in nuce troviamo «uno Zevi allo stato puro. Uno Zevi intelligente, perspicace, attento, entusiasta, sottile, con il senso dei tempi, mordace, ben informato, che domina con scioltezza le fonti… ma sempre dalla parte di ciò che intende come lo sforzo dei ribelli contro i potenti». Chiude questa nuova edizione un saggio di Manuel Orazi che ripercorre le tappe della carriera accademica di Zevi, la sua fascinazione per le teorie di Benedetto Croce, ma anche il suo rapporto con Tafuri e lo IUAV di Venezia. Un testo necessario dopo la rilettura del libro, perché con una necessaria distanza, riesce ad analizzare l’idea di critica operativa e la sua influenza sul dibattito nazionale, fino alla sua totale scomparsa. Sono d’accordo con Orazi quando scrive che l’eclissi della critica operativa ha portato la storia ad allontanarsi completamente dalla progettazione. Mentre un tempo i migliori progettisti temevano o almeno tenevano in considerazione i giudizi dei principali storici.... Alfabeto Fotografico Romano ICC Georges Didi – Huberman scrive “non si può…mai dire: non c’è niente da vedere, non c’è più niente da vedere”. Bisogna capire cosa far vedere e come, aggiungo io. Spesso dobbiamo guardare indietro per capire cosa ci riserva il futuro. In un mondo in cui si è tentati di dimenticare o ignorare troppo, infatti, la riconquista del nostro passato collettivo dovrebbe essere tra i primi progetti per il nostro futuro. Le immagini degli archivi contenute in questo volume non sono state selezionate tanto per il loro valore artistico, ma per la loro capacità documentaria, ci permettono di guardare il passato, e pensare al presente. L’Alfabeto fotografico romano, prende forma intorno a 21 temi, uno per ogni lettera del nostro alfabeto. Le parole segnano lo spazio tra una raccolta di immagini e l’altra, tutte citazioni che descrivono un campo d’azione in cui fotografi noti e meno noti descrivono e documentano il reale. Un vocabolario immaginifico che non definisce categorie o generi fotografici; ma piuttosto cerca di riportare in evidenza storie, fatti, oggetti, opere, autori, relazioni, spesso sconosciuti e inesplorati. Una raccolta di sguardi non sempre alla ricerca di un significato preciso, ma che se accostati uno all’altro mettono in scena la trasformazione del mondo. Roma appare e scompare, è in un certo senso un punto di partenza e forse un punto di arrivo di questo viaggio nel tempo. I curatori, Maria Francesca Bonetti e Clemente Marsicola, hanno selezionato immagini e temi insieme ai responsabili delle collezioni fotografiche romane: Soprintendenze e Istituti centrali, Musei, Biblioteche, Archivi, oltre a Istituti sia italiani che stranieri, Museo di Roma - Palazzo Braschi e Musei Vaticani. 250 opere scelte, frutto di un lavoro di introspezione degli archivi fotografici coinvolti. Una realtà, quella degli archivi che conserva milioni di immagini che documentano e rievocano i segni della cronaca, dei danni bellici e delle difese approntate per i beni culturali, del potere romano, della bellezza e della vita quotidiana, lungo un arco temporale che va dagli anni quaranta del XIX secolo, fino ai primi anni del XXI. Roma come ho detto appare e scompare, in luoghi distanti tra loro, è il vero cuore di questa magnifica raccolta. Infatti nel libro ci sono i primi fotografi che scattarono e distribuirono in tutta Europa immagini romane, Eugéne Constant e James Anderson, seguiti da Romualdo Moscioni e John Henry Parker, archeologo inglese che tra 1864 e 1877 fu tra i primi a commissionare campagne fotografiche relative all'archeologia, a seguire molti altri, tra cui viaggiatori ed esploratori, professionisti del ritratto, fotografi di scena, amatori e fotoreporter, fino ad alcuni autori contemporanei tra i quali spiccano Luigi Ghirri, Guido Guidi, Elisabetta Catalano, Gabriele Basilico, Olivo Barbieri e Letizia Battaglia. Un libro importante che meriterebbe una distribuzione migliore perché è capace di valorizzazione un patrimonio fotografico nazionale che da solo riempirebbe le sale di molti edifici inutilizzati a Roma e in tante altre città. The room of one’s own DOGMA Black Square Press 2017 Se si consulta un saggio pubblicato oggi su una tema specialistico, si può facilmente rilevare che il più delle volte la bibliografia non va oltre una pagina e i riferimenti non vanno molto indietro negli anni. I saggi vengono costruiti senza consultare una biblioteca reale, le ricerche vengono per lo più sviluppate on line, ed in molti documenti fruibili sul web manca spesso una data di riferimento, mentre le date sono un punto di partenza necessario. Oggi infatti si è persa qualunque profondità temporale, e forse questo libro ci aiuta a ritrovarla. Per questo motivo per cominciare a parlare di The room of one’s own di DOGMA è necessario cominciare dalla fine. La bibliografia comincia a pag 124 e termina a pagina 130 poco meno di 280 libri di riferimento, necessari per tracciare la storia della stanza in architettura. Ma andiamo con ordine e ricominciamo dal principio, per costruire un libro non di storia come siamo abituati a leggere oggi, Dogma costruisce qualcosa a metà tra saggio e dizionario enciclopedico illustrato. Per farlo sovrappone tre narrazioni diverse. Un testo critico che ripercorre in sette atti, la storia dell’architettura, descrive in principio la stanza come spazio dell’individualità, attraverso le considerazioni di scrittori e filosofi, per poi trasformarla in un concetto astratto e passare all’evoluzione della sua forma. Dallo spazio circolare delle culture primitive a quello rettangolare che ha permesso di cominciare a pensare per sistemi aggregati. In ogni periodo storico la stanza assume significati diversi, tanto che una cultura viene caratterizzata da una stanza specifica; dal Megaron, all’Oikos della cultura greca, dal Cubicola romano fino alla cella monastica per poi giungere alla grande varietà di stanze del Rinascimento. Dogma prosegue seguendo un percorso logico preciso, legge ed interpreta la storia come progetto, traccia una mappa mai scritta per portarci fino al XX secolo, e al significato politico della cellula base dell’architettura. Nella seconda parte 64 piante ripercorrono, attraverso un atlante ridisegnato per l’occasione, le tracce segnate dal testo principale. Le tavole atlante sono capaci di mettere in sequenza diagrammi planimetrici delle stanze, sistemi aggregativi, definizioni e motivazioni degli esempi scelti. L’ultima parte è composta da 48 tavole, una sorta di ricostruzione archeologica di immagini perdute o disperse nelle pagine di romanzi, biografie e fotografie d’epoca o frutto esclusivo dell’interpretazione degli autori. Le tavole rappresentano le stanze di personaggi famosi. Queste Immagini raccolte come dittici in modo da amplificarne il significato, formano una sequenza temporale non lineare. Ogni dittico produce attraverso la contrapposizione delle due parti una dichiarazione. Troviamo lo studiolo di Francesco I con la stanza di Joel Orton e Kenneth Halliwell, a segnare il tempo delle sopravvivenze. La camera da letto di Virginia Woolf e il Cabanon di Le Corbusier, lo spazio del pensiero e dell’emancipazione. Lo studio di Sigmud Freud e il Mrzebau di Kurt Schwitter, lo spazio della memoria e dell’inconscio. Questa parte nasce e si sviluppa attorno ad un’analisi attenta di fonti iconografiche capaci di far produrre agli autori una serie di illustrazioni (disegni a fil di ferro) che guardano l’interno di queste stanze da punti di vista prestabiliti, in modo da permetterci un facile confronto tra i modelli scelti. Un lavoro sulla memoria, in cui il disegno diventa quasi magicamente progetto. Un aspetto importante è che molte delle stanze scelte sono state abitate da personaggi famosi, scrittori, architetti, artisti. Quasi a voler dimostrare che lo spazio interno si completa solo nel momento in cui viene abitato e quindi attraverso gli oggetti che contiene, prende la forma esatta del suo abitante. Ecco se mettete assieme tutto questo e se poi diciamo che l’autore non è un singolo architetto, ne un insegnante con un gruppo di studenti ma uno studio di architettura, capiamo che oggi è ancora possibile pensare un libro come un vero e proprio strumento di ricerca. Riusciamo a comprendere come attraverso un libro uno studio di progettisti possa raccontare la sua idea di architettura senza mai usare la parola teoria, ma usando la storia come strumento conoscitivo ed interpretativo. In questo libro non è importante solo ciò che c’è ma anche ciò che è assente. Il lettore leggendo lo aggiunge mentalmente, diventando non solo fruitore ma anche produttore di contenuti. Nel processo mentale dei lettori è infatti nascosta la qualità di questo lavoro. Io continuo a disegnare mentalmente le stanze che ritengo importanti completando il percorso tracciato da Dogma. Qualcuno potrà dire, oggi è facile raccogliere tutte queste semplici informazioni, se interpelliamo il web abbiamo di fronte a noi la memoria del mondo e un incredibile quantità di siti web che ci mettono di fronte informazioni di ogni tipo, tempi e luoghi che si sovrappongono senza fine. Ma come facciamo a selezionare solo quelle parti che ci interessano? Ecco per farlo dobbiamo fidarci di quegli autori capaci di trasformare la memoria in una narrazione fluida e senza interruzioni. Dobbiamo fidarci della loro logica, e seguendoli leggendo fino alla fine ci accorgeremo che potremo guardare lo spazio in cui viviamo in modo diverso. Ho cominciato questo breve testo dalla Bibliografia, mi sembra giusto quindi chiudere con il titolo per ristabilire un ordine naturale. Nel 1928 Virginia Woolf fu invitata a tenere una conferenza sul tema "Le donne e il romanzo". Il risultato è uno straordinario saggio, dal titolo The room of one’s own (Una stanza tutta per se) vero e proprio manifesto sulla condizione femminile. Come poteva una donna, si chiede la scrittrice inglese, dedicarsi alla letteratura se non possedeva "denaro e una stanza tutta per sé"? La stanza per scrivere è per la Woolf la metafora di una condizione di libertà, un simbolo di emancipazione, uno spazio necessario alla vita. Così anche per Dogma la stanza racchiude un significato preciso, è il luogo della libertà ma anche metafora di un mondo che cambia e un vincolo che ci costringe ad una vita in cui è sempre più difficile riuscire a riconoscere il limite tra pubblico e privato, tra lavoro e vita domestica, un luogo del dubbio. La stanza è lo spazio da cui ripartire e in cui ritrovare una dimensione comune. Una stanza tutta per se in cui accogliere le vite degli altri. Oliver Meystre Pictures of the Floating Microcosm New Reppresentations of Japanese Architecture Parks Books Il libro di Olivier Meystre, Pictures of the Floating Microcosm: New Representations of Japanese Architecture, è un saggio accurato, sulla rappresentazione del progetto nell’architettura contemporanea giapponese. Assonometrie, modelli, disegni al tratto, dettagli, non sono solo metodi di rappresentazione ma una forma di narrazione che accompagna i progetti di architettura dalla fase iniziale fino alla realizzazione finale dell’opera. Una grammatica di linee e forme caratterizza i disegni di Junya Ishigami, Ryue Nishizawa, Kazuyo Sejima, e tanti altri architetti giapponesi. La loro leggerezza ha raggiunto il grande pubblico superando di gran lunga paesi dove l’architettura disegnata ha sempre fatto parte della tradizione storica, pensate all’Italia del dopoguerra. L’architettura radicale, la Tendenza, la Scuola Romana, momenti diversi in cui l’idea della rappresentazione formava un unicum con la teoria del progetto. La ragione è nascosta nella capacità dei progettisti giapponesi di riuscire a fondere pensiero e spazio in una forma di rappresentazione che non è lingua ma esigenza espressiva. Quasi non esiste differenza tra progetto e sua rappresentazione, entrambe raffigurazioni di spazi da abitare oggi, senza nessuna rinuncia alla tradizione e alla memoria. Come gli architetti giapponesi progettano e disegnano e il fulcro centrale del libro di Meystre’, che combina immagini e dialoghi con gli autori, la sua infatti non è tanto la voglia di dare forma ad una teoria ma aiutarci a capire attraverso le parole dei protagonisti un metodo. Meystre disegna con le parole una serie di sezioni tematiche, che sulla base della rappresentazione definiscono i metodi di costruzione del progetto. Il dialogo tra architettura e paesaggio, la semplicità di forme e concetti sono sempre una rappresentazione di soluzioni spaziali. La corrispondenza tra realtà ed immaginario è la caratteristica di una forma espressiva che è essa stessa architettura. Un libro coinvolgente e poetico, che invece di mettere in scena l’architettura segna una mappa dell’immaginario di un’intera generazione, raccontando lo spazio nel suo lento prendere forma.

THE BOOKLIST - RECENSIONI DI LIBRI D'ARTE E ARCHITETTURA

LUCA GALOFARO
2018-01-01

Abstract

Architectura in Nuce Bruno Zevi Quodilibet 2018 «La critica architettonica, e perciò la storia dell’architettura, non serve soltanto a far rivivere il passato o a consacrare con un premio l’opera di questo o quell’artista contemporaneo: essa decide le sorti stesse dell’architettura antica e moderna». Siamo nel centenario della nascita di Bruno Zevi, tra le iniziative che celebrano questo anniversario, la ristampa anastatica di Architectura in Nuce è un momento importante per due motivi. Il primo è legato alla speranza che questo libro rientri nelle scuole, per supportare la storia e la critica dell’architettura che negli ultimi anni non è più un momento fondamentale nella formazione degli studenti di architettura. Il lavoro degli storici purtroppo viaggia su un binario parallelo a quello degli architetti, nessuno guarda più il lavoro degli altri, spesso quella critica operativa e coinvolgente tanto amata da Zevi è passata nelle mani di architetti che affiancano alla loro attività di progettisti quella di studiosi della storia. Una sperimentazione ed un azione di reinterpretazione la loro, utile allo sviluppo del progetto, che sarebbe piaciuta molto a Bruno Zevi. La seconda, la più importante perché a distanza di quasi sessant’anni questo libro è ancora di grande attualità per il modo in cui i testi si relazionano con le immagini per indagare e capire lo spazio. 247 pagine e circa 399 illustrazioni danno la dimensione di come Bruno Zevi sia stato capace di anticipare i tempi. Il suo discorso critico infatti non era costruito solo sulle parole ma sulla sequenza di immagini che diventavano un testo dentro il testo. Questo non significa che Zevi aveva bisogno di illustrare le sue parole, ma sentiva la necessità di procedere con il ragionamento facendo viaggiare il lettore tra le immagini. Zevi ha amato appassionatamente le fotografie, preferiva sequenze invece che immagini singole scelte unicamente per rappresentare l’oggetto architettonico. Cercava di restituire attraverso le sequenze create tra tempi e luoghi la complessità dello spazio. Sembrava interessarsi più all’opportunità che queste immagini offrivano all’osservatore, spesso le accompagnava con lunghe didascalie. L’uso dell’immagine è una forma di interpretazione non razionale che procede per associazioni di idee, analogie di forme e di senso, spesso focalizzandosi su un dettaglio dell’immagine, secondo un principio che per certi versi prefigura la teoria del Punctum di Roland Barthes. L’immagine è per Zevi uno spazio aperto un supporto efficace per chi guarda. Il documento fotografico diventa un potente strumento di stimolo e di rigenerazione poetica. Questo è il libro che forse meglio rappresenta la maturità di Bruno Zevi, Architettura in nuce è infatti tanto un omaggio all’estetica di Benedetto Croce quanto un’originale applicazione della dialettica all’architettura, la costruzione di un discorso di senso che ripercorre la storia secondo una logica non lineare, che segue il filo dell’interpretazione critica dell’autore. Il libro è diviso in tre parti, la prima la più teorica e quella forse più complessa, in cui Zevi attraverso una sovrapposizione di citazioni cerca di dare una definizione dell’architettura. La sua scrittura cerca di definire il significato di spazio partendo dallo spazio interno vero e proprio centro del discorso; la seconda, si sofferma sul metodo e sui problemi della storiografia, Zevi rafforza la sua posizione personale rileggendo la storia che è stata già scritta; la terza, dimostra la necessità di far convergere nella sua idea di architettura altre discipline che fino a quel momento mantenevano una loro autonomia, ingegneria, urbanistica, design, scrivono lo spazio. Zevi non fa altro che cercare di tradurre in chiave architettonica la tripartizione crociana poesia, non poesia, anti poesia. Questa edizione è arricchita di una prefazione di Rafael Moneo che aveva tradotto il libro in spagnolo. L’architetto spagnolo sostiene che in Architettura in nuce troviamo «uno Zevi allo stato puro. Uno Zevi intelligente, perspicace, attento, entusiasta, sottile, con il senso dei tempi, mordace, ben informato, che domina con scioltezza le fonti… ma sempre dalla parte di ciò che intende come lo sforzo dei ribelli contro i potenti». Chiude questa nuova edizione un saggio di Manuel Orazi che ripercorre le tappe della carriera accademica di Zevi, la sua fascinazione per le teorie di Benedetto Croce, ma anche il suo rapporto con Tafuri e lo IUAV di Venezia. Un testo necessario dopo la rilettura del libro, perché con una necessaria distanza, riesce ad analizzare l’idea di critica operativa e la sua influenza sul dibattito nazionale, fino alla sua totale scomparsa. Sono d’accordo con Orazi quando scrive che l’eclissi della critica operativa ha portato la storia ad allontanarsi completamente dalla progettazione. Mentre un tempo i migliori progettisti temevano o almeno tenevano in considerazione i giudizi dei principali storici.... Alfabeto Fotografico Romano ICC Georges Didi – Huberman scrive “non si può…mai dire: non c’è niente da vedere, non c’è più niente da vedere”. Bisogna capire cosa far vedere e come, aggiungo io. Spesso dobbiamo guardare indietro per capire cosa ci riserva il futuro. In un mondo in cui si è tentati di dimenticare o ignorare troppo, infatti, la riconquista del nostro passato collettivo dovrebbe essere tra i primi progetti per il nostro futuro. Le immagini degli archivi contenute in questo volume non sono state selezionate tanto per il loro valore artistico, ma per la loro capacità documentaria, ci permettono di guardare il passato, e pensare al presente. L’Alfabeto fotografico romano, prende forma intorno a 21 temi, uno per ogni lettera del nostro alfabeto. Le parole segnano lo spazio tra una raccolta di immagini e l’altra, tutte citazioni che descrivono un campo d’azione in cui fotografi noti e meno noti descrivono e documentano il reale. Un vocabolario immaginifico che non definisce categorie o generi fotografici; ma piuttosto cerca di riportare in evidenza storie, fatti, oggetti, opere, autori, relazioni, spesso sconosciuti e inesplorati. Una raccolta di sguardi non sempre alla ricerca di un significato preciso, ma che se accostati uno all’altro mettono in scena la trasformazione del mondo. Roma appare e scompare, è in un certo senso un punto di partenza e forse un punto di arrivo di questo viaggio nel tempo. I curatori, Maria Francesca Bonetti e Clemente Marsicola, hanno selezionato immagini e temi insieme ai responsabili delle collezioni fotografiche romane: Soprintendenze e Istituti centrali, Musei, Biblioteche, Archivi, oltre a Istituti sia italiani che stranieri, Museo di Roma - Palazzo Braschi e Musei Vaticani. 250 opere scelte, frutto di un lavoro di introspezione degli archivi fotografici coinvolti. Una realtà, quella degli archivi che conserva milioni di immagini che documentano e rievocano i segni della cronaca, dei danni bellici e delle difese approntate per i beni culturali, del potere romano, della bellezza e della vita quotidiana, lungo un arco temporale che va dagli anni quaranta del XIX secolo, fino ai primi anni del XXI. Roma come ho detto appare e scompare, in luoghi distanti tra loro, è il vero cuore di questa magnifica raccolta. Infatti nel libro ci sono i primi fotografi che scattarono e distribuirono in tutta Europa immagini romane, Eugéne Constant e James Anderson, seguiti da Romualdo Moscioni e John Henry Parker, archeologo inglese che tra 1864 e 1877 fu tra i primi a commissionare campagne fotografiche relative all'archeologia, a seguire molti altri, tra cui viaggiatori ed esploratori, professionisti del ritratto, fotografi di scena, amatori e fotoreporter, fino ad alcuni autori contemporanei tra i quali spiccano Luigi Ghirri, Guido Guidi, Elisabetta Catalano, Gabriele Basilico, Olivo Barbieri e Letizia Battaglia. Un libro importante che meriterebbe una distribuzione migliore perché è capace di valorizzazione un patrimonio fotografico nazionale che da solo riempirebbe le sale di molti edifici inutilizzati a Roma e in tante altre città. The room of one’s own DOGMA Black Square Press 2017 Se si consulta un saggio pubblicato oggi su una tema specialistico, si può facilmente rilevare che il più delle volte la bibliografia non va oltre una pagina e i riferimenti non vanno molto indietro negli anni. I saggi vengono costruiti senza consultare una biblioteca reale, le ricerche vengono per lo più sviluppate on line, ed in molti documenti fruibili sul web manca spesso una data di riferimento, mentre le date sono un punto di partenza necessario. Oggi infatti si è persa qualunque profondità temporale, e forse questo libro ci aiuta a ritrovarla. Per questo motivo per cominciare a parlare di The room of one’s own di DOGMA è necessario cominciare dalla fine. La bibliografia comincia a pag 124 e termina a pagina 130 poco meno di 280 libri di riferimento, necessari per tracciare la storia della stanza in architettura. Ma andiamo con ordine e ricominciamo dal principio, per costruire un libro non di storia come siamo abituati a leggere oggi, Dogma costruisce qualcosa a metà tra saggio e dizionario enciclopedico illustrato. Per farlo sovrappone tre narrazioni diverse. Un testo critico che ripercorre in sette atti, la storia dell’architettura, descrive in principio la stanza come spazio dell’individualità, attraverso le considerazioni di scrittori e filosofi, per poi trasformarla in un concetto astratto e passare all’evoluzione della sua forma. Dallo spazio circolare delle culture primitive a quello rettangolare che ha permesso di cominciare a pensare per sistemi aggregati. In ogni periodo storico la stanza assume significati diversi, tanto che una cultura viene caratterizzata da una stanza specifica; dal Megaron, all’Oikos della cultura greca, dal Cubicola romano fino alla cella monastica per poi giungere alla grande varietà di stanze del Rinascimento. Dogma prosegue seguendo un percorso logico preciso, legge ed interpreta la storia come progetto, traccia una mappa mai scritta per portarci fino al XX secolo, e al significato politico della cellula base dell’architettura. Nella seconda parte 64 piante ripercorrono, attraverso un atlante ridisegnato per l’occasione, le tracce segnate dal testo principale. Le tavole atlante sono capaci di mettere in sequenza diagrammi planimetrici delle stanze, sistemi aggregativi, definizioni e motivazioni degli esempi scelti. L’ultima parte è composta da 48 tavole, una sorta di ricostruzione archeologica di immagini perdute o disperse nelle pagine di romanzi, biografie e fotografie d’epoca o frutto esclusivo dell’interpretazione degli autori. Le tavole rappresentano le stanze di personaggi famosi. Queste Immagini raccolte come dittici in modo da amplificarne il significato, formano una sequenza temporale non lineare. Ogni dittico produce attraverso la contrapposizione delle due parti una dichiarazione. Troviamo lo studiolo di Francesco I con la stanza di Joel Orton e Kenneth Halliwell, a segnare il tempo delle sopravvivenze. La camera da letto di Virginia Woolf e il Cabanon di Le Corbusier, lo spazio del pensiero e dell’emancipazione. Lo studio di Sigmud Freud e il Mrzebau di Kurt Schwitter, lo spazio della memoria e dell’inconscio. Questa parte nasce e si sviluppa attorno ad un’analisi attenta di fonti iconografiche capaci di far produrre agli autori una serie di illustrazioni (disegni a fil di ferro) che guardano l’interno di queste stanze da punti di vista prestabiliti, in modo da permetterci un facile confronto tra i modelli scelti. Un lavoro sulla memoria, in cui il disegno diventa quasi magicamente progetto. Un aspetto importante è che molte delle stanze scelte sono state abitate da personaggi famosi, scrittori, architetti, artisti. Quasi a voler dimostrare che lo spazio interno si completa solo nel momento in cui viene abitato e quindi attraverso gli oggetti che contiene, prende la forma esatta del suo abitante. Ecco se mettete assieme tutto questo e se poi diciamo che l’autore non è un singolo architetto, ne un insegnante con un gruppo di studenti ma uno studio di architettura, capiamo che oggi è ancora possibile pensare un libro come un vero e proprio strumento di ricerca. Riusciamo a comprendere come attraverso un libro uno studio di progettisti possa raccontare la sua idea di architettura senza mai usare la parola teoria, ma usando la storia come strumento conoscitivo ed interpretativo. In questo libro non è importante solo ciò che c’è ma anche ciò che è assente. Il lettore leggendo lo aggiunge mentalmente, diventando non solo fruitore ma anche produttore di contenuti. Nel processo mentale dei lettori è infatti nascosta la qualità di questo lavoro. Io continuo a disegnare mentalmente le stanze che ritengo importanti completando il percorso tracciato da Dogma. Qualcuno potrà dire, oggi è facile raccogliere tutte queste semplici informazioni, se interpelliamo il web abbiamo di fronte a noi la memoria del mondo e un incredibile quantità di siti web che ci mettono di fronte informazioni di ogni tipo, tempi e luoghi che si sovrappongono senza fine. Ma come facciamo a selezionare solo quelle parti che ci interessano? Ecco per farlo dobbiamo fidarci di quegli autori capaci di trasformare la memoria in una narrazione fluida e senza interruzioni. Dobbiamo fidarci della loro logica, e seguendoli leggendo fino alla fine ci accorgeremo che potremo guardare lo spazio in cui viviamo in modo diverso. Ho cominciato questo breve testo dalla Bibliografia, mi sembra giusto quindi chiudere con il titolo per ristabilire un ordine naturale. Nel 1928 Virginia Woolf fu invitata a tenere una conferenza sul tema "Le donne e il romanzo". Il risultato è uno straordinario saggio, dal titolo The room of one’s own (Una stanza tutta per se) vero e proprio manifesto sulla condizione femminile. Come poteva una donna, si chiede la scrittrice inglese, dedicarsi alla letteratura se non possedeva "denaro e una stanza tutta per sé"? La stanza per scrivere è per la Woolf la metafora di una condizione di libertà, un simbolo di emancipazione, uno spazio necessario alla vita. Così anche per Dogma la stanza racchiude un significato preciso, è il luogo della libertà ma anche metafora di un mondo che cambia e un vincolo che ci costringe ad una vita in cui è sempre più difficile riuscire a riconoscere il limite tra pubblico e privato, tra lavoro e vita domestica, un luogo del dubbio. La stanza è lo spazio da cui ripartire e in cui ritrovare una dimensione comune. Una stanza tutta per se in cui accogliere le vite degli altri. Oliver Meystre Pictures of the Floating Microcosm New Reppresentations of Japanese Architecture Parks Books Il libro di Olivier Meystre, Pictures of the Floating Microcosm: New Representations of Japanese Architecture, è un saggio accurato, sulla rappresentazione del progetto nell’architettura contemporanea giapponese. Assonometrie, modelli, disegni al tratto, dettagli, non sono solo metodi di rappresentazione ma una forma di narrazione che accompagna i progetti di architettura dalla fase iniziale fino alla realizzazione finale dell’opera. Una grammatica di linee e forme caratterizza i disegni di Junya Ishigami, Ryue Nishizawa, Kazuyo Sejima, e tanti altri architetti giapponesi. La loro leggerezza ha raggiunto il grande pubblico superando di gran lunga paesi dove l’architettura disegnata ha sempre fatto parte della tradizione storica, pensate all’Italia del dopoguerra. L’architettura radicale, la Tendenza, la Scuola Romana, momenti diversi in cui l’idea della rappresentazione formava un unicum con la teoria del progetto. La ragione è nascosta nella capacità dei progettisti giapponesi di riuscire a fondere pensiero e spazio in una forma di rappresentazione che non è lingua ma esigenza espressiva. Quasi non esiste differenza tra progetto e sua rappresentazione, entrambe raffigurazioni di spazi da abitare oggi, senza nessuna rinuncia alla tradizione e alla memoria. Come gli architetti giapponesi progettano e disegnano e il fulcro centrale del libro di Meystre’, che combina immagini e dialoghi con gli autori, la sua infatti non è tanto la voglia di dare forma ad una teoria ma aiutarci a capire attraverso le parole dei protagonisti un metodo. Meystre disegna con le parole una serie di sezioni tematiche, che sulla base della rappresentazione definiscono i metodi di costruzione del progetto. Il dialogo tra architettura e paesaggio, la semplicità di forme e concetti sono sempre una rappresentazione di soluzioni spaziali. La corrispondenza tra realtà ed immaginario è la caratteristica di una forma espressiva che è essa stessa architettura. Un libro coinvolgente e poetico, che invece di mettere in scena l’architettura segna una mappa dell’immaginario di un’intera generazione, raccontando lo spazio nel suo lento prendere forma.
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