Una storia sbagliata Un dialogo sull’architettura italiana tra generazioni diverse Luca Galofaro e Alessandro Toti Luca Galofaro – Mi occupo di architettura da molto tempo: ho aperto il mio primo studio (IaN+) nel 1997 e il secondo nel 2015 (LGSMA), gestisco assieme ad altri architetti uno spazio per l’architettura (CAMPO) e insegno all’Università di Camerino; ho una certa familiarità con l’architettura italiana. Mi piacerebbe iniziare questa storia partendo da lontano, dagli anni in cui la mia generazione è cresciuta e si è formata, l’ultimo periodo in cui la cultura italiana occupava un ruolo centrale a livello internazionale. Douglas Mortimer perimetra questa stagione agli anni che vanno dal 1964 al 1980: allora «le strade delle città vengono attraversate da conflitti sociali violenti che traducono immediatamente in agire politico la loro intensità e l’innovazione culturale gioca un ruolo essenziale per legittimare la radicalità delle scelte di campo». La tesi di Mortimer è tanto semplice quanto efficace: «la cultura italiana sperimenta, inventa sa innovare solo quando si politicizza, mentre invece nei periodi di disimpegno si limita a importare pedissequamente modelli esteri». In realtà, anche per tutti quelli che come me erano troppo giovani per partecipare attivamente alla vita politica di quegli anni, quel clima ha contribuito a lasciare un’impronta decisiva sulla nostra formazione, anche solo attraverso ciò che abbiamo guardato. La cultura italiana di quei vent’anni ha saputo trasformare, riproporre e anticipare interi generi di consumo, generi che in seguito sono stati la matrice di una cultura internazionale e maggioritaria. Al cinema, gli spaghetti western di Sergio Leone, i nuovi horror di Dario Argento e Mario Bava, così come i fumetti di Magnus e Andrea Pazienza; in architettura Superstudio, Archizoom e tutti i Radicali innescano un rapporto completamente nuovo con il reale, incorporandolo nelle loro visioni utopiche e prefigurando un futuro in cui l'architettura perde ogni significato e il design reinventa un mondo fatto di oggetti non sempre necessari. Il clima di quel periodo ha guidato le mie scelte, aiutandomi a capire quale direzione prendere e a cercare un percorso di ricerca indipendente. All’inizio degli anni novanta, una volta laureato, come tanti miei coetanei ho avuto la possibilità di scegliere un percorso lavorativo. Forse oggi è un po’ diverso, ma allora un giovane architetto aveva più strade davanti a sé: poteva proseguire la propria attività professionale all'interno dello studio dove aveva fatto pratica, iniziare una lenta carriera accademica, oppure aprirsi uno studio autonomo e cercare di costruire la propria idea di architettura attraverso concorsi e piccole commissioni. Io ho scelto quest’ultima strada e, dopo aver proseguito gli studi all’estero e fatto pratica da diversi architetti, ho legato alla pratica del costruire anche una riflessione sulla teoria del progetto architettonico, producendo immagini destinate a restare su carta ma che avessero la forza di guidare il lavoro dello studio. So di essere stato fortunato, oggi scegliere è diventato un lusso, non tutti se lo possono permettere. Alessandro Toti – È vero, oggi chi può scegliere è un caso isolato. In linea di principio non è cambiato molto, per un neolaureato le strade sono ancora quelle a cui tu fai riferimento: cosa è cambiato è il percorso che queste strade aprono. Se prima ad un più o meno lungo periodo di pratica, seguiva quella che tu chiami ‘possibilità di scegliere’, per chi si affaccia oggi nel mondo dell’architettura in Italia la prospettiva è quella di trovarsi in uno stato di gavetta senza fine, in cui si continua all’infinito ad acquisire competenze che non si potranno mai spendere in maniera autonoma. Forse è possibile sintetizzare questo passaggio in termini più brutali: da professionisti, gli architetti sono diventati dei semplici operai. Forse proprio nella mia generazione è avvenuto quel processo di definitiva proletarizzazione che in altri mestieri è avvenuto nel corso dell’ottocento e del novecento, per cui il lavoro non corrisponde più ad un atto creativo ma a un insieme di compiti standardizzati e seriali. Finalmente, mi sentirei di aggiungere: non ho nessun rimpianto verso quella figura di architetto creatore che siede nel suo studio e progetta, credendo di cambiare il mondo. Peccato che, a fronte di questa proletarizzazione del mestiere, la nascita di una coscienza di classe sia ancora un miraggio molto lontano, anche per chi è più giovane; si crede ancora di essere dei professionisti, nonostante la realtà racconti una storia completamente diversa. Un po’ perché è difficile fotografare questa situazione, un po’ perché forse è meglio non farlo, non ci sono dati precisi sulla condizione lavorativa dei giovani architetti e delle giovani architette. Tuttavia, dividendo a spanne la sensazione generale è che – fra i fortunati che lavorano – un terzo abbia un contratto regolare, un terzo sia retribuito attraverso tirocini formativi, e un terzo lavori gratis, mentre una percentuale irrisoria sia in grado di aprire uno studio indipendente. Quindi che si voglia oppure no, i problemi di un architetto non sono più legati all’esercizio professionale, ma riguardano questioni molto più prosaiche: il salario, gli orari di lavoro, la malattia, le ferie, i contributi. Per diventare architetti ancora oggi bisogna aderire a un ordine, molto più utile sarebbe invece potersi iscriversi a un sindacato. Insisto su questo argomento perché credo sia estremamente cruciale. Parlare oggi di architettura italiana passa in primo luogo dalla discussione delle condizioni lavorative con cui un neolaureato è obbligato a confrontarsi. Tuttavia, non credo che siano i singoli studi di architettura i responsabili di questa situazione – almeno i più piccoli, che in Italia costituiscono la stragrande maggioranza. Se certamente è vero che tirocini finanziati e gratuiti sono utilizzati in maniera indiscriminata, è vero anche che gli stessi studi sono in una situazione di sofferenza senza precedenti. Il cuore della questione politica dell’essere architetti oggi in Italia non passa attraverso una lotta tra le nostre generazioni, ma nel riconoscerci collettivamente come lavoratori di un settore produttivo in profonda crisi, messi a combattere fra loro attraverso categorie di facciata solo per non compromettere il funzionamento organico del sistema. Luca Galofaro – Il mio è uno studio di piccole dimensioni, ma in seguito ad una serie di concorsi vinti tra il 2004 e il 2006 si è ingrandito rapidamente, per contrarsi in seguito alla situazione economica del nostro paese. Ho fatto crescere molti giovani, architetti promettenti che hanno dimostrato nel tempo grandi qualità, ma so di non essere stato in grado di sostenere il loro sviluppo: quando era necessario riconoscergli un salario adeguato, non potevo fare altro che aiutarli a trovare un’altra sistemazione, spesso all'estero. E così ogni anno ero costretto a ricominciare con un nuovo gruppo, mentre i lavori più importanti procedevano con una lentezza incredibile, a volte protraendosi per oltre dieci anni. Anche per questi motivi non sono riuscito a costruire uno studio di architettura moderno, la mia è stata una bottega artigiana, un laboratorio che ha provato a sviluppare un atteggiamento progettuale realista senza rinunciare all'impegno e alla ricerca. Non è stato affatto facile portare avanti questi principi, trattare con lo stesso atteggiamento e la stessa dedizione le architetture che sapevo di dover costruire e quelle che pensavo per restare su carta. In entrambi i casi il progetto ha rappresentato un valore particolare, forse perché, senza slanci idealistici, non ho mai considerato l’architettura come un lavoro nel senso tradizionale del termine; dal mio punto di vista, tanto edifici concreti quanto immagini utopiche fanno parte di una ricerca unitaria, una produzione intellettuale autonoma, che comporta un modo di lavorare tra teoria e pratica. In questo modus operandi riconosco una matrice comune con altri studi italiani, anzi credo che proprio questa volontà di non scindere progetto e ricerca, pratica e teoria sia uno dei tratti più caratteristici di ciò che chiamiamo architettura italiana. Alessandro Toti – Sono assolutamente d’accordo con questa definizione problematica ed eterodossa di architettura italiana; proprio per questo però, mi preoccupa l’utilizzo troppo frequente di questa categoria, troppo spesso intesa solo come architettura prodotta in Italia o da architetti italiani. D’altronde, il rischio consapevole o inconsapevole di unificare attraverso il sempreverde brand del made in Italy esperienze estemporanee ed eterogenee è sempre in agguato. A margine di queste considerazioni di carattere più generale, vorrei anche evidenziare alcuni fenomeni più recenti per cui il principio di nazionalità si sta progressivamente affievolendo. Innanzitutto, già nella carriera universitaria gli studenti e le studentesse più giovani svolgono almeno un’esperienza all’estero, confrontandosi direttamente con un panorama diverso da quello italiano; dal punto di vista lavorativo, inoltre, la sofferenza del settore ha costretto molti giovani architetti a trasferirsi oltralpe, o almeno a considerare seriamente quest’ipotesi; infine, i media più seguiti dell’architettura contemporanea sono rigorosamente online, internazionali e in inglese. Per tutti questi motivi, la dimensione nazionale tende a passare in secondo piano rispetto ad una realtà sempre più globalizzata e discontinua. Luca Galofaro – È vero, ma devi ammettere che negli ultimi anni si sta affermando una nuova generazione capace di restituire all’architettura italiana una visibilità che da ormai troppo tempo mancava. Questa generazione ha come punti di riferimento Pier Vittorio Aureli con lo studio DOGMA e il collettivo San Rocco: il primo, un architetto che con i suoi libri e il suo incessante lavoro all'interno di scuole prestigiose ha rivoluzionato l’orizzonte teorico della disciplina; il secondo, un gruppo, che attorno all’omonima rivista ha creato un luogo fondamentale di confronto e collaborazione tra individualità eterogenee. In modi diversi queste figure hanno avuto il merito di guardare al passato senza nessuna particolare nostalgia e con la giusta distanza critica, riportando al centro del discorso quella tradizione di pensiero che ha caratterizzato la stagione 1964-1980 in Italia – quella Italian theory vista come «un campo di tensioni in cui sono proprio le differenze e i conflitti a delinearne il territorio». Attorno a loro, tanti studi che, con un’intensità progettuale più o meno realista, negli anni hanno costruito una diffusa qualità del pensiero architettonico attraverso strumenti e linguaggi diversissimi, spesso sfruttando la scrittura e la rappresentazione come forme di pensiero critico. Guardata più da lontano, questo gruppo non mira alla ricostruzione di una prospettiva unitaria e nazionalista dell’architettura italiana, quanto ad ampliarne le origini e le prospettive. Non a caso, le stesse “differenze” – i.e. i conflitti politici – che dovrebbero sostenere queste teorie, sono sempre meno di carattere nazionale e più europeo e globale. Alessandro Toti – Credo anche io che la stagione 1964-1980 svolga un ruolo assolutamente centrale per la cultura contemporanea. Proprio per questo però, mi piacerebbe approfondire un aspetto, che a mio parere troppo spesso rimane in secondo piano rispetto alla notevole produzione di contenuti e di strumenti culturali cui fai giustamente riferimento tu. Credo sia importante ricordare che il 1964 fu l’anno di pubblicazione di Apocalittici e integrati, il libro di Umberto Eco che fra i primi documentò la radicale cesura che in quel periodo andava nascendo tra casti fustigatori della modernità e disinibiti produttori del nuovo. Se la conflittualità degli anni ’60 e ’70 ha il merito di avere prodotto una grande innovazione culturale, è anche vero che da quello stesso periodo una frattura sempre più profonda separa teoria e prassi, utopia e progetto. 
La radicalizzazione dell’universo teorico e il parallelo indebolimento del progetto politico – sempre più confinato ad esperienze tanto radicali, quanto estemporanee ed effimere – ha scavato una trincea al cui interno la cultura è ancora prigioniera. Da questo punto di vista, mi sembra che la professione architettonica si divida in parti uguali: da un lato chi è costretto ad adottare il più disincantato degli approcci, prostrandosi ai processi di capitalizzazione e spettacolarizzazione delle città ad opera del mercato immobiliare; dall’altro, chi si impegna in progetti visionari e avanguardisti, che nel migliore dei casi rimangono lettera morta, e nel peggiore rientrano nel mercato con la funzione di legittimare l’efficienza o stimolare la creatività dei suoi teorici antagonisti. Uscire da questa impasse non è affatto scontato, anche cercando una vocazione politica per il proprio lavoro. Tanto per fare un esempio, in quel famoso 1964 c’era un largo consenso rispetto alle richieste architettoniche della classe operaia: quartieri residenziali dotati di servizi e infrastrutture. Oggi, una classe operaia di cui paradossalmente fanno parte anche gli architetti non esprime particolari richieste per la disciplina, se non un ambizioso “diritto alla città” e un più modesto interesse per spazi recuperati, partecipati, autocostruiti ed ecologici. Per gli architetti c’è ben poco da fare. In questo senso, non sorprende che il miglior prodotto dall’architettura italiana dell’ultimo decennio siano in primo luogo architetti molto raffinati, capaci di rispondere con eleganza e competenza a problemi disciplinari ma incapaci di proiettare l’architettura come questione eminentemente urbana e politica; in alternativa, architetti estraneamente radicali, che si sono prodotti in un rinnovamento teorico e critico fondamentale, ma il cui impatta sulla realtà sociale è per il momento molto marginale. Non vorrei essere frainteso: tutte queste esperienze sono validissime se prese singolarmente, il problema è nella struttura che le contiene, o forse proprio nella sua assenza. Luca Galofaro – Forse hai ragione, il problema può anche essere nella mancanza di confronto tra chi ha operato in questi anni; ad esempio, i diversi gruppi che ho citato hanno avuto la capacità di raccogliersi attorno ad un progetto culturale come quello di una rivista o di una scuola. Ma il tuo è anche uno sguardo differente sulla realtà, c'è nelle tue parole una distanza critica da ciò che ti circonda, e questo deriva secondo me dalla diversità degli anni in cui siamo cresciuti. Se proviamo a paragonare il ventennio 1964-1980 a quello 1980-2000 e guardiamo alle trasformazioni culturali, al mondo dell'università ma anche della vita politica del paese, possiamo capire perché la nostra disciplina non è più riuscita per lungo tempo ad imporsi ed attirare l'attenzione sulle nostre città. Non è nient’altro che la scomparsa del conflitto politico, della volontà di un confronto sociale fra forze antagoniste, che riporta l’architettura, e più in generale la cultura italiana, ad avere un ruolo periferico e marginale nel contesto mondiale. Quel periodo forse lo stiamo ancora vivendo e, per quanto sia cresciuta da un punto di vista qualitativo, l’architettura italiana stenta ancora a trovare una sua identità. Come scrive Gabriele Mastrigli, siamo proiettati in uno stato di utopia permanente, in cui l’architettura «non si configura soltanto come uno dei possibili beni di consumo. All'opposto essa assorbe ogni oggetto sciogliendolo in una fitta rete di relazioni, simboliche, spaziali, sociali, che ne annullano progressivamente il valore d'uso sublimandolo in valore di scambio». Questa mercificazione ha comportato anche un indebolimento dei luoghi della ricerca, a cominciare dalle Università. Fino alla fine degli anni ottanta questa era ancora un luogo di formazione dell'individuo che per la prima volta si confrontava con un mondo che cambiava, e cercava a tutti costi di essere parte del cambiamento sociale, di anticiparlo, indirizzarlo o contrastarlo. Personalmente ho insegnato all'estero per circa dodici anni e ora lo faccio in Italia, sono stato in scuole pubbliche e private e la didattica è stata una parte integrante della mia esperienza progettuale. Proprio nel periodo in cui io ho iniziato ad insegnare e tu a frequentare l’università, alcuni valori si sono persi e sono diventati anch’essi un bene di scambio: alla cultura critica si è sostituita la raccolta standardizzata di crediti formativi; basti pensare che anche nel nome un semplice esame si è trasformato in un atto dovuto, in quanto lo scambio di sapere è stato sostituito dal ‘credito’ – letteralmente «nel rapporto obbligatorio, la prestazione dovuta dal debitore obbligato al beneficiario, nonché il diritto a esigere la medesima». A questa trasformazione del sapere in parametri misurabili e quantificabili si accompagna il generale livellamento verso il basso delle responsabilità, tanto degli studenti quanto dei docenti. Parallelamente, anche lo spazio della città è cambiato, alla strada come luogo di formazione di un immaginario culturale e di confronto e limite tra sfera pubblica e privata, si è sostituito il museo, un’istituzione che spesso invece di produrre cultura, la vende. Creatività, ideologie e innovazioni hanno senso solo se si proiettano nel reale: così è stato in quegli anni e così non è più. Se le radio libere rappresentavano il desiderio di un confronto autonomo e critico tra produttore e consumatore, dopo la metà degli anni ottanta le tv private hanno anestetizzato e contrastato questa istanza, celebrando un vero e proprio cambio di paradigma, un cambiamento antropologico degli italiani. Il resto è storia: l'indebolimento della capacità di aggregazione dei partiti e la personalizzazione della vita politica si riflettono nel mondo dell’architettura, in cui alle ‘scuole’ si sostituiscono le ‘archistar’, che istituzionalizzano definitivamente l’architettura quale bene di consumo. Alessandro Toti – Questo della personalizzazione è un punto fondamentale, che troppo spesso viene confinato alla macchietta di un politico volgare o di un architetto arrogante. In realtà, questo fenomeno si estende a un universo di esperienze ben più critico ed ampio, come l’identity politics nella politica, il bios nella filosofia e l’autobiografia nell’arte, tanto per citare alcuni esempi. A partire dagli anni ‘80 e ‘90 anche l’architettura ha iniziato a seguire queste correnti, eleggendo in breve tempo il personale, lo spontaneo e l’episodico a vero e proprio ordine della nuova era. D’altronde, perché preoccuparsi di farsi domande, quando era finalmente possibile dare risposte? La cosiddetta fine delle ideologie, che avrebbe dovuto spalancare orizzonti di pace e consenso; la possibilità di esprimersi creativamente attraverso il proprio corpo e la propria sensibilità; l’arrivo del computer e del disegno digitale; l’insorgere di nuovi problemi specifici, come la sostenibilità, il recupero urbano, il consumo di suolo; e, infine, la prospettiva di un benessere sempre più diffuso e generalizzato: tutto questo dava all’architettura la bellezza di un teorema risolto e allo stesso tempo l’urgenza di un vaccino da diffondere. Non pensare quindi ma sperimentare, creare, fare. La mia posizione disillusa e disincantata verso le possibilità della architettura non viene da un periodo di austerità e rigore, ma da un periodo in cui era possibile fare tutto, in cui si è fatto tutto, ma in cui nulla è cambiato davvero. Nonostante tutte queste promesse non abbiano impiegato molto a manifestare la loro vacuità, fino a pochi anni fa questa retorica produttiva dominava incontrastata soprattutto nelle accademie, con lo schizofrenico risultato per cui uno studente di architettura dentro l’università ascoltava tessere le lodi del mestiere, e fuori scopriva che questo si era pressoché estinto sotto i duri colpi della crisi immobiliare. Sfortunatamente però, la fine di questa ideologia del fare non è stata un’occasione per ripensare dalle fondamenta il senso della disciplina, ma è stata risolta ingigantendo il suo diretto opposto, la “teoria” – per eccellenza ruota di scorta degli architetti in tempi di crisi. Così, a fronte di uno sparuto gruppo di progettisti che è sempre stato impegnato nella ricerca, oggi proliferano conferenze, seminari, libri e riviste che rivendicano la centralità e l’indipendenza della teoria. Con l’unico problema che questa, privata di un serrato confronto con il reale, non sia altro che una foglia di fico per coprire una vergogna che non si è ancora abbastanza disinibiti di mostrare, e cioè la difficoltà di fare architettura di qualità oggigiorno in Italia. Luca Galofaro – A questo punto mi sembra importante definire due strade che rispecchiano due differenti tipologie degli studi di architettura italiani. Da una parte c’è chi ha lavorato sul progetto cercando di mantenere un equilibrio tra teoria e costruzione, per definizione molto difficile da mantenere; dall’altra, chi si invece è dedicato esclusivamente alla costruzione e al progetto. Entrambi per ragioni diverse hanno contribuito alla costruzione di un’identità, anche se provando un senso di frustrazione reciproco, perché ognuno era desideroso di essere nella parte dell’altro; la frustrazione, purtroppo, si è sostituita al confronto. In questa situazione cosa è venuto a mancare è stato il ruolo cardine delle università, che avrebbero dovuto favorire la crescita e il dialogo di queste due correnti, ma che invece hanno preferito disinteressarsi a questa dialettica o parteggiare di volta in volta per una delle due fazioni. Ciò ha costretto molti fra i migliori interpreti a cercare altrove un terreno più fertile per il proprio lavoro, spesso in università e studi professionali fuori dall’Italia. Paradossalmente, proprio questi architetti che hanno scelto di lasciare il nostro paese oggi offrono all’architettura italiana una nuova prospettiva. Alessandro Toti – Tu sei molto ottimista, purtroppo io meno. Di fronte alla drammaticità e all’immobilità del panorama contemporaneo mi sembra di vedere, da un lato, architetti che agiscono indiscriminatamente, legittimati dalla crisi a mettere da parte il più minimo principio che non sia quello del guadagno; dall’altro, architetti che sbandierano i loro inderogabili valori etici e morali, ma che poi finiscono per non produrre niente di diverso dai loro colleghi più smaliziati. Ben pochi accettano la condizione di minorità e marginalità in cui il nostro lavoro è vincolato; è vero, come dici tu c’è chi va all’estero e lì riesce a trovare un contesto più positivo e promettente per la propria ricerca; ma che questa strategia possa incidere concretamente sulla situazione urbana e culturale del nostro paese è tutto da dimostrare: è una scommessa, se non un pericoloso azzardo. Luca Galofaro – Non so se oggi ha ancora senso parlare di identità dell’architettura italiana. A prescindere da questo, tuttavia, è necessario ristabilire il valore della cultura italiana intesa come forma di pensiero e non come prodotto commerciale. Non mi interessa affatto che l’architettura italiana diventi un marchio da esportare, mi interessa molto di più che la cultura italiana torni ad essere uno spazio di confronto e di riferimento anche per tutti i ragazzi e le ragazze che, proprio come te, oggi sono profondamente disillusi. La perdita di fiducia è dovuta in gran parte all’esaurirsi delle ideologie e dei sistemi di valori fondati sull’impegno politico, che ha contribuito a perpetuare il distacco tra classe politica e società civile e a rafforzare la diffidenza nei confronti delle istituzioni. In questa situazione l’architettura, così come il mondo della cultura in generale, ha vissuto uno scollamento totale dalla realtà del paese, che l’ha portata a chiudersi in se stessa, a perdere di vista quello che dovrebbe essere suo contesto naturale: la città e la società, in tutte le loro forme più complesse e contraddittorie. Alessandro Toti – Se ci pensi, oggi esistono tanti giovani studi e ricercatori che si impegnano con serietà e passione nel loro lavoro; tuttavia, o non arrivano in alto, oppure una volta arrivati loro contributo diventa sempre più marginale o acritico. Non credo che queste colpe si possano imputare ai singoli, come d’altronde non credo che un singolo possa opporsi a questa realtà. Recupererei invece quello che hai detto tu all’inizio: l’architettura italiana è di qualità se e solo se si sviluppa all’interno di un quadro politico conflittuale. E allora dove bisogna guardare se non alla politica per intercettare dei segnali positivi per la nostra disciplina? A ben guardare, questi segnali già ci sono: rispetto a pochi anni fa, si è tornato a parlare di lotta di classe, un concetto che sembrava sepolto per sempre; sempre più spesso si mettono da parte battaglie identitarie e frammentarie in nome di un’istanza conflittuale più universale, il lavoro; e nell’attesa che architetti, artisti, freelancer e studenti finalmente si rendano conto della loro avvenuta proletarizzazione, si stanno radicalizzando gli anelli più sensibili della catena produttiva contemporanea – in primis quello della logistica, la più grande frontiera dello sfruttamento oggi in occidente. Nonostante tutto questo sembri avere ben poco a che fare con l’architettura, proprio qui c’è l’unica condizione che può far rifiorire la nostra disciplina: la possibilità che le cose cambino, e la possibilità di rappresentare quel cambiamento. Luca Galofaro – Sono d’accordo con te e penso che non sia necessario solo un cambiamento interno alla disciplina: a cambiare dovrebbe essere il ruolo dell’architetto all’interno della società e il ruolo dell’architettura nello sviluppo economico e politico delle nostre città. L’architettura italiana, ancora una volta potrebbe rappresentare quel cambiamento, non attraverso un nuovo pensiero utopico, ma attraverso un’attenta riflessione sul nostro passato e, soprattutto, sul nostro presente. Sarebbe opportuno ricreare quel clima di confronto culturale che è sempre stato alla base dell'architettura italiana.

A WRONG STORY - UNA STORIA SBAGLIATA

GALOFARO, Luca
2017-01-01

Abstract

Una storia sbagliata Un dialogo sull’architettura italiana tra generazioni diverse Luca Galofaro e Alessandro Toti Luca Galofaro – Mi occupo di architettura da molto tempo: ho aperto il mio primo studio (IaN+) nel 1997 e il secondo nel 2015 (LGSMA), gestisco assieme ad altri architetti uno spazio per l’architettura (CAMPO) e insegno all’Università di Camerino; ho una certa familiarità con l’architettura italiana. Mi piacerebbe iniziare questa storia partendo da lontano, dagli anni in cui la mia generazione è cresciuta e si è formata, l’ultimo periodo in cui la cultura italiana occupava un ruolo centrale a livello internazionale. Douglas Mortimer perimetra questa stagione agli anni che vanno dal 1964 al 1980: allora «le strade delle città vengono attraversate da conflitti sociali violenti che traducono immediatamente in agire politico la loro intensità e l’innovazione culturale gioca un ruolo essenziale per legittimare la radicalità delle scelte di campo». La tesi di Mortimer è tanto semplice quanto efficace: «la cultura italiana sperimenta, inventa sa innovare solo quando si politicizza, mentre invece nei periodi di disimpegno si limita a importare pedissequamente modelli esteri». In realtà, anche per tutti quelli che come me erano troppo giovani per partecipare attivamente alla vita politica di quegli anni, quel clima ha contribuito a lasciare un’impronta decisiva sulla nostra formazione, anche solo attraverso ciò che abbiamo guardato. La cultura italiana di quei vent’anni ha saputo trasformare, riproporre e anticipare interi generi di consumo, generi che in seguito sono stati la matrice di una cultura internazionale e maggioritaria. Al cinema, gli spaghetti western di Sergio Leone, i nuovi horror di Dario Argento e Mario Bava, così come i fumetti di Magnus e Andrea Pazienza; in architettura Superstudio, Archizoom e tutti i Radicali innescano un rapporto completamente nuovo con il reale, incorporandolo nelle loro visioni utopiche e prefigurando un futuro in cui l'architettura perde ogni significato e il design reinventa un mondo fatto di oggetti non sempre necessari. Il clima di quel periodo ha guidato le mie scelte, aiutandomi a capire quale direzione prendere e a cercare un percorso di ricerca indipendente. All’inizio degli anni novanta, una volta laureato, come tanti miei coetanei ho avuto la possibilità di scegliere un percorso lavorativo. Forse oggi è un po’ diverso, ma allora un giovane architetto aveva più strade davanti a sé: poteva proseguire la propria attività professionale all'interno dello studio dove aveva fatto pratica, iniziare una lenta carriera accademica, oppure aprirsi uno studio autonomo e cercare di costruire la propria idea di architettura attraverso concorsi e piccole commissioni. Io ho scelto quest’ultima strada e, dopo aver proseguito gli studi all’estero e fatto pratica da diversi architetti, ho legato alla pratica del costruire anche una riflessione sulla teoria del progetto architettonico, producendo immagini destinate a restare su carta ma che avessero la forza di guidare il lavoro dello studio. So di essere stato fortunato, oggi scegliere è diventato un lusso, non tutti se lo possono permettere. Alessandro Toti – È vero, oggi chi può scegliere è un caso isolato. In linea di principio non è cambiato molto, per un neolaureato le strade sono ancora quelle a cui tu fai riferimento: cosa è cambiato è il percorso che queste strade aprono. Se prima ad un più o meno lungo periodo di pratica, seguiva quella che tu chiami ‘possibilità di scegliere’, per chi si affaccia oggi nel mondo dell’architettura in Italia la prospettiva è quella di trovarsi in uno stato di gavetta senza fine, in cui si continua all’infinito ad acquisire competenze che non si potranno mai spendere in maniera autonoma. Forse è possibile sintetizzare questo passaggio in termini più brutali: da professionisti, gli architetti sono diventati dei semplici operai. Forse proprio nella mia generazione è avvenuto quel processo di definitiva proletarizzazione che in altri mestieri è avvenuto nel corso dell’ottocento e del novecento, per cui il lavoro non corrisponde più ad un atto creativo ma a un insieme di compiti standardizzati e seriali. Finalmente, mi sentirei di aggiungere: non ho nessun rimpianto verso quella figura di architetto creatore che siede nel suo studio e progetta, credendo di cambiare il mondo. Peccato che, a fronte di questa proletarizzazione del mestiere, la nascita di una coscienza di classe sia ancora un miraggio molto lontano, anche per chi è più giovane; si crede ancora di essere dei professionisti, nonostante la realtà racconti una storia completamente diversa. Un po’ perché è difficile fotografare questa situazione, un po’ perché forse è meglio non farlo, non ci sono dati precisi sulla condizione lavorativa dei giovani architetti e delle giovani architette. Tuttavia, dividendo a spanne la sensazione generale è che – fra i fortunati che lavorano – un terzo abbia un contratto regolare, un terzo sia retribuito attraverso tirocini formativi, e un terzo lavori gratis, mentre una percentuale irrisoria sia in grado di aprire uno studio indipendente. Quindi che si voglia oppure no, i problemi di un architetto non sono più legati all’esercizio professionale, ma riguardano questioni molto più prosaiche: il salario, gli orari di lavoro, la malattia, le ferie, i contributi. Per diventare architetti ancora oggi bisogna aderire a un ordine, molto più utile sarebbe invece potersi iscriversi a un sindacato. Insisto su questo argomento perché credo sia estremamente cruciale. Parlare oggi di architettura italiana passa in primo luogo dalla discussione delle condizioni lavorative con cui un neolaureato è obbligato a confrontarsi. Tuttavia, non credo che siano i singoli studi di architettura i responsabili di questa situazione – almeno i più piccoli, che in Italia costituiscono la stragrande maggioranza. Se certamente è vero che tirocini finanziati e gratuiti sono utilizzati in maniera indiscriminata, è vero anche che gli stessi studi sono in una situazione di sofferenza senza precedenti. Il cuore della questione politica dell’essere architetti oggi in Italia non passa attraverso una lotta tra le nostre generazioni, ma nel riconoscerci collettivamente come lavoratori di un settore produttivo in profonda crisi, messi a combattere fra loro attraverso categorie di facciata solo per non compromettere il funzionamento organico del sistema. Luca Galofaro – Il mio è uno studio di piccole dimensioni, ma in seguito ad una serie di concorsi vinti tra il 2004 e il 2006 si è ingrandito rapidamente, per contrarsi in seguito alla situazione economica del nostro paese. Ho fatto crescere molti giovani, architetti promettenti che hanno dimostrato nel tempo grandi qualità, ma so di non essere stato in grado di sostenere il loro sviluppo: quando era necessario riconoscergli un salario adeguato, non potevo fare altro che aiutarli a trovare un’altra sistemazione, spesso all'estero. E così ogni anno ero costretto a ricominciare con un nuovo gruppo, mentre i lavori più importanti procedevano con una lentezza incredibile, a volte protraendosi per oltre dieci anni. Anche per questi motivi non sono riuscito a costruire uno studio di architettura moderno, la mia è stata una bottega artigiana, un laboratorio che ha provato a sviluppare un atteggiamento progettuale realista senza rinunciare all'impegno e alla ricerca. Non è stato affatto facile portare avanti questi principi, trattare con lo stesso atteggiamento e la stessa dedizione le architetture che sapevo di dover costruire e quelle che pensavo per restare su carta. In entrambi i casi il progetto ha rappresentato un valore particolare, forse perché, senza slanci idealistici, non ho mai considerato l’architettura come un lavoro nel senso tradizionale del termine; dal mio punto di vista, tanto edifici concreti quanto immagini utopiche fanno parte di una ricerca unitaria, una produzione intellettuale autonoma, che comporta un modo di lavorare tra teoria e pratica. In questo modus operandi riconosco una matrice comune con altri studi italiani, anzi credo che proprio questa volontà di non scindere progetto e ricerca, pratica e teoria sia uno dei tratti più caratteristici di ciò che chiamiamo architettura italiana. Alessandro Toti – Sono assolutamente d’accordo con questa definizione problematica ed eterodossa di architettura italiana; proprio per questo però, mi preoccupa l’utilizzo troppo frequente di questa categoria, troppo spesso intesa solo come architettura prodotta in Italia o da architetti italiani. D’altronde, il rischio consapevole o inconsapevole di unificare attraverso il sempreverde brand del made in Italy esperienze estemporanee ed eterogenee è sempre in agguato. A margine di queste considerazioni di carattere più generale, vorrei anche evidenziare alcuni fenomeni più recenti per cui il principio di nazionalità si sta progressivamente affievolendo. Innanzitutto, già nella carriera universitaria gli studenti e le studentesse più giovani svolgono almeno un’esperienza all’estero, confrontandosi direttamente con un panorama diverso da quello italiano; dal punto di vista lavorativo, inoltre, la sofferenza del settore ha costretto molti giovani architetti a trasferirsi oltralpe, o almeno a considerare seriamente quest’ipotesi; infine, i media più seguiti dell’architettura contemporanea sono rigorosamente online, internazionali e in inglese. Per tutti questi motivi, la dimensione nazionale tende a passare in secondo piano rispetto ad una realtà sempre più globalizzata e discontinua. Luca Galofaro – È vero, ma devi ammettere che negli ultimi anni si sta affermando una nuova generazione capace di restituire all’architettura italiana una visibilità che da ormai troppo tempo mancava. Questa generazione ha come punti di riferimento Pier Vittorio Aureli con lo studio DOGMA e il collettivo San Rocco: il primo, un architetto che con i suoi libri e il suo incessante lavoro all'interno di scuole prestigiose ha rivoluzionato l’orizzonte teorico della disciplina; il secondo, un gruppo, che attorno all’omonima rivista ha creato un luogo fondamentale di confronto e collaborazione tra individualità eterogenee. In modi diversi queste figure hanno avuto il merito di guardare al passato senza nessuna particolare nostalgia e con la giusta distanza critica, riportando al centro del discorso quella tradizione di pensiero che ha caratterizzato la stagione 1964-1980 in Italia – quella Italian theory vista come «un campo di tensioni in cui sono proprio le differenze e i conflitti a delinearne il territorio». Attorno a loro, tanti studi che, con un’intensità progettuale più o meno realista, negli anni hanno costruito una diffusa qualità del pensiero architettonico attraverso strumenti e linguaggi diversissimi, spesso sfruttando la scrittura e la rappresentazione come forme di pensiero critico. Guardata più da lontano, questo gruppo non mira alla ricostruzione di una prospettiva unitaria e nazionalista dell’architettura italiana, quanto ad ampliarne le origini e le prospettive. Non a caso, le stesse “differenze” – i.e. i conflitti politici – che dovrebbero sostenere queste teorie, sono sempre meno di carattere nazionale e più europeo e globale. Alessandro Toti – Credo anche io che la stagione 1964-1980 svolga un ruolo assolutamente centrale per la cultura contemporanea. Proprio per questo però, mi piacerebbe approfondire un aspetto, che a mio parere troppo spesso rimane in secondo piano rispetto alla notevole produzione di contenuti e di strumenti culturali cui fai giustamente riferimento tu. Credo sia importante ricordare che il 1964 fu l’anno di pubblicazione di Apocalittici e integrati, il libro di Umberto Eco che fra i primi documentò la radicale cesura che in quel periodo andava nascendo tra casti fustigatori della modernità e disinibiti produttori del nuovo. Se la conflittualità degli anni ’60 e ’70 ha il merito di avere prodotto una grande innovazione culturale, è anche vero che da quello stesso periodo una frattura sempre più profonda separa teoria e prassi, utopia e progetto. 
La radicalizzazione dell’universo teorico e il parallelo indebolimento del progetto politico – sempre più confinato ad esperienze tanto radicali, quanto estemporanee ed effimere – ha scavato una trincea al cui interno la cultura è ancora prigioniera. Da questo punto di vista, mi sembra che la professione architettonica si divida in parti uguali: da un lato chi è costretto ad adottare il più disincantato degli approcci, prostrandosi ai processi di capitalizzazione e spettacolarizzazione delle città ad opera del mercato immobiliare; dall’altro, chi si impegna in progetti visionari e avanguardisti, che nel migliore dei casi rimangono lettera morta, e nel peggiore rientrano nel mercato con la funzione di legittimare l’efficienza o stimolare la creatività dei suoi teorici antagonisti. Uscire da questa impasse non è affatto scontato, anche cercando una vocazione politica per il proprio lavoro. Tanto per fare un esempio, in quel famoso 1964 c’era un largo consenso rispetto alle richieste architettoniche della classe operaia: quartieri residenziali dotati di servizi e infrastrutture. Oggi, una classe operaia di cui paradossalmente fanno parte anche gli architetti non esprime particolari richieste per la disciplina, se non un ambizioso “diritto alla città” e un più modesto interesse per spazi recuperati, partecipati, autocostruiti ed ecologici. Per gli architetti c’è ben poco da fare. In questo senso, non sorprende che il miglior prodotto dall’architettura italiana dell’ultimo decennio siano in primo luogo architetti molto raffinati, capaci di rispondere con eleganza e competenza a problemi disciplinari ma incapaci di proiettare l’architettura come questione eminentemente urbana e politica; in alternativa, architetti estraneamente radicali, che si sono prodotti in un rinnovamento teorico e critico fondamentale, ma il cui impatta sulla realtà sociale è per il momento molto marginale. Non vorrei essere frainteso: tutte queste esperienze sono validissime se prese singolarmente, il problema è nella struttura che le contiene, o forse proprio nella sua assenza. Luca Galofaro – Forse hai ragione, il problema può anche essere nella mancanza di confronto tra chi ha operato in questi anni; ad esempio, i diversi gruppi che ho citato hanno avuto la capacità di raccogliersi attorno ad un progetto culturale come quello di una rivista o di una scuola. Ma il tuo è anche uno sguardo differente sulla realtà, c'è nelle tue parole una distanza critica da ciò che ti circonda, e questo deriva secondo me dalla diversità degli anni in cui siamo cresciuti. Se proviamo a paragonare il ventennio 1964-1980 a quello 1980-2000 e guardiamo alle trasformazioni culturali, al mondo dell'università ma anche della vita politica del paese, possiamo capire perché la nostra disciplina non è più riuscita per lungo tempo ad imporsi ed attirare l'attenzione sulle nostre città. Non è nient’altro che la scomparsa del conflitto politico, della volontà di un confronto sociale fra forze antagoniste, che riporta l’architettura, e più in generale la cultura italiana, ad avere un ruolo periferico e marginale nel contesto mondiale. Quel periodo forse lo stiamo ancora vivendo e, per quanto sia cresciuta da un punto di vista qualitativo, l’architettura italiana stenta ancora a trovare una sua identità. Come scrive Gabriele Mastrigli, siamo proiettati in uno stato di utopia permanente, in cui l’architettura «non si configura soltanto come uno dei possibili beni di consumo. All'opposto essa assorbe ogni oggetto sciogliendolo in una fitta rete di relazioni, simboliche, spaziali, sociali, che ne annullano progressivamente il valore d'uso sublimandolo in valore di scambio». Questa mercificazione ha comportato anche un indebolimento dei luoghi della ricerca, a cominciare dalle Università. Fino alla fine degli anni ottanta questa era ancora un luogo di formazione dell'individuo che per la prima volta si confrontava con un mondo che cambiava, e cercava a tutti costi di essere parte del cambiamento sociale, di anticiparlo, indirizzarlo o contrastarlo. Personalmente ho insegnato all'estero per circa dodici anni e ora lo faccio in Italia, sono stato in scuole pubbliche e private e la didattica è stata una parte integrante della mia esperienza progettuale. Proprio nel periodo in cui io ho iniziato ad insegnare e tu a frequentare l’università, alcuni valori si sono persi e sono diventati anch’essi un bene di scambio: alla cultura critica si è sostituita la raccolta standardizzata di crediti formativi; basti pensare che anche nel nome un semplice esame si è trasformato in un atto dovuto, in quanto lo scambio di sapere è stato sostituito dal ‘credito’ – letteralmente «nel rapporto obbligatorio, la prestazione dovuta dal debitore obbligato al beneficiario, nonché il diritto a esigere la medesima». A questa trasformazione del sapere in parametri misurabili e quantificabili si accompagna il generale livellamento verso il basso delle responsabilità, tanto degli studenti quanto dei docenti. Parallelamente, anche lo spazio della città è cambiato, alla strada come luogo di formazione di un immaginario culturale e di confronto e limite tra sfera pubblica e privata, si è sostituito il museo, un’istituzione che spesso invece di produrre cultura, la vende. Creatività, ideologie e innovazioni hanno senso solo se si proiettano nel reale: così è stato in quegli anni e così non è più. Se le radio libere rappresentavano il desiderio di un confronto autonomo e critico tra produttore e consumatore, dopo la metà degli anni ottanta le tv private hanno anestetizzato e contrastato questa istanza, celebrando un vero e proprio cambio di paradigma, un cambiamento antropologico degli italiani. Il resto è storia: l'indebolimento della capacità di aggregazione dei partiti e la personalizzazione della vita politica si riflettono nel mondo dell’architettura, in cui alle ‘scuole’ si sostituiscono le ‘archistar’, che istituzionalizzano definitivamente l’architettura quale bene di consumo. Alessandro Toti – Questo della personalizzazione è un punto fondamentale, che troppo spesso viene confinato alla macchietta di un politico volgare o di un architetto arrogante. In realtà, questo fenomeno si estende a un universo di esperienze ben più critico ed ampio, come l’identity politics nella politica, il bios nella filosofia e l’autobiografia nell’arte, tanto per citare alcuni esempi. A partire dagli anni ‘80 e ‘90 anche l’architettura ha iniziato a seguire queste correnti, eleggendo in breve tempo il personale, lo spontaneo e l’episodico a vero e proprio ordine della nuova era. D’altronde, perché preoccuparsi di farsi domande, quando era finalmente possibile dare risposte? La cosiddetta fine delle ideologie, che avrebbe dovuto spalancare orizzonti di pace e consenso; la possibilità di esprimersi creativamente attraverso il proprio corpo e la propria sensibilità; l’arrivo del computer e del disegno digitale; l’insorgere di nuovi problemi specifici, come la sostenibilità, il recupero urbano, il consumo di suolo; e, infine, la prospettiva di un benessere sempre più diffuso e generalizzato: tutto questo dava all’architettura la bellezza di un teorema risolto e allo stesso tempo l’urgenza di un vaccino da diffondere. Non pensare quindi ma sperimentare, creare, fare. La mia posizione disillusa e disincantata verso le possibilità della architettura non viene da un periodo di austerità e rigore, ma da un periodo in cui era possibile fare tutto, in cui si è fatto tutto, ma in cui nulla è cambiato davvero. Nonostante tutte queste promesse non abbiano impiegato molto a manifestare la loro vacuità, fino a pochi anni fa questa retorica produttiva dominava incontrastata soprattutto nelle accademie, con lo schizofrenico risultato per cui uno studente di architettura dentro l’università ascoltava tessere le lodi del mestiere, e fuori scopriva che questo si era pressoché estinto sotto i duri colpi della crisi immobiliare. Sfortunatamente però, la fine di questa ideologia del fare non è stata un’occasione per ripensare dalle fondamenta il senso della disciplina, ma è stata risolta ingigantendo il suo diretto opposto, la “teoria” – per eccellenza ruota di scorta degli architetti in tempi di crisi. Così, a fronte di uno sparuto gruppo di progettisti che è sempre stato impegnato nella ricerca, oggi proliferano conferenze, seminari, libri e riviste che rivendicano la centralità e l’indipendenza della teoria. Con l’unico problema che questa, privata di un serrato confronto con il reale, non sia altro che una foglia di fico per coprire una vergogna che non si è ancora abbastanza disinibiti di mostrare, e cioè la difficoltà di fare architettura di qualità oggigiorno in Italia. Luca Galofaro – A questo punto mi sembra importante definire due strade che rispecchiano due differenti tipologie degli studi di architettura italiani. Da una parte c’è chi ha lavorato sul progetto cercando di mantenere un equilibrio tra teoria e costruzione, per definizione molto difficile da mantenere; dall’altra, chi si invece è dedicato esclusivamente alla costruzione e al progetto. Entrambi per ragioni diverse hanno contribuito alla costruzione di un’identità, anche se provando un senso di frustrazione reciproco, perché ognuno era desideroso di essere nella parte dell’altro; la frustrazione, purtroppo, si è sostituita al confronto. In questa situazione cosa è venuto a mancare è stato il ruolo cardine delle università, che avrebbero dovuto favorire la crescita e il dialogo di queste due correnti, ma che invece hanno preferito disinteressarsi a questa dialettica o parteggiare di volta in volta per una delle due fazioni. Ciò ha costretto molti fra i migliori interpreti a cercare altrove un terreno più fertile per il proprio lavoro, spesso in università e studi professionali fuori dall’Italia. Paradossalmente, proprio questi architetti che hanno scelto di lasciare il nostro paese oggi offrono all’architettura italiana una nuova prospettiva. Alessandro Toti – Tu sei molto ottimista, purtroppo io meno. Di fronte alla drammaticità e all’immobilità del panorama contemporaneo mi sembra di vedere, da un lato, architetti che agiscono indiscriminatamente, legittimati dalla crisi a mettere da parte il più minimo principio che non sia quello del guadagno; dall’altro, architetti che sbandierano i loro inderogabili valori etici e morali, ma che poi finiscono per non produrre niente di diverso dai loro colleghi più smaliziati. Ben pochi accettano la condizione di minorità e marginalità in cui il nostro lavoro è vincolato; è vero, come dici tu c’è chi va all’estero e lì riesce a trovare un contesto più positivo e promettente per la propria ricerca; ma che questa strategia possa incidere concretamente sulla situazione urbana e culturale del nostro paese è tutto da dimostrare: è una scommessa, se non un pericoloso azzardo. Luca Galofaro – Non so se oggi ha ancora senso parlare di identità dell’architettura italiana. A prescindere da questo, tuttavia, è necessario ristabilire il valore della cultura italiana intesa come forma di pensiero e non come prodotto commerciale. Non mi interessa affatto che l’architettura italiana diventi un marchio da esportare, mi interessa molto di più che la cultura italiana torni ad essere uno spazio di confronto e di riferimento anche per tutti i ragazzi e le ragazze che, proprio come te, oggi sono profondamente disillusi. La perdita di fiducia è dovuta in gran parte all’esaurirsi delle ideologie e dei sistemi di valori fondati sull’impegno politico, che ha contribuito a perpetuare il distacco tra classe politica e società civile e a rafforzare la diffidenza nei confronti delle istituzioni. In questa situazione l’architettura, così come il mondo della cultura in generale, ha vissuto uno scollamento totale dalla realtà del paese, che l’ha portata a chiudersi in se stessa, a perdere di vista quello che dovrebbe essere suo contesto naturale: la città e la società, in tutte le loro forme più complesse e contraddittorie. Alessandro Toti – Se ci pensi, oggi esistono tanti giovani studi e ricercatori che si impegnano con serietà e passione nel loro lavoro; tuttavia, o non arrivano in alto, oppure una volta arrivati loro contributo diventa sempre più marginale o acritico. Non credo che queste colpe si possano imputare ai singoli, come d’altronde non credo che un singolo possa opporsi a questa realtà. Recupererei invece quello che hai detto tu all’inizio: l’architettura italiana è di qualità se e solo se si sviluppa all’interno di un quadro politico conflittuale. E allora dove bisogna guardare se non alla politica per intercettare dei segnali positivi per la nostra disciplina? A ben guardare, questi segnali già ci sono: rispetto a pochi anni fa, si è tornato a parlare di lotta di classe, un concetto che sembrava sepolto per sempre; sempre più spesso si mettono da parte battaglie identitarie e frammentarie in nome di un’istanza conflittuale più universale, il lavoro; e nell’attesa che architetti, artisti, freelancer e studenti finalmente si rendano conto della loro avvenuta proletarizzazione, si stanno radicalizzando gli anelli più sensibili della catena produttiva contemporanea – in primis quello della logistica, la più grande frontiera dello sfruttamento oggi in occidente. Nonostante tutto questo sembri avere ben poco a che fare con l’architettura, proprio qui c’è l’unica condizione che può far rifiorire la nostra disciplina: la possibilità che le cose cambino, e la possibilità di rappresentare quel cambiamento. Luca Galofaro – Sono d’accordo con te e penso che non sia necessario solo un cambiamento interno alla disciplina: a cambiare dovrebbe essere il ruolo dell’architetto all’interno della società e il ruolo dell’architettura nello sviluppo economico e politico delle nostre città. L’architettura italiana, ancora una volta potrebbe rappresentare quel cambiamento, non attraverso un nuovo pensiero utopico, ma attraverso un’attenta riflessione sul nostro passato e, soprattutto, sul nostro presente. Sarebbe opportuno ricreare quel clima di confronto culturale che è sempre stato alla base dell'architettura italiana.
File in questo prodotto:
Non ci sono file associati a questo prodotto.

I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.

Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11581/399415
 Attenzione

Attenzione! I dati visualizzati non sono stati sottoposti a validazione da parte dell'ateneo

Citazioni
  • ???jsp.display-item.citation.pmc??? ND
  • Scopus ND
  • ???jsp.display-item.citation.isi??? ND
social impact